«A me basta che i soldi siano veri» pronuncia il protagonista, un uomo che, come altri, si è recato in una lussuosa villa ottocentesca per vendere il proprio corpo a entità misteriose in cambio di denaro. Uomini disperati disposti a sottomettersi all’ignoto pur di migliorare la propria condizione. The Complex Form, esordio del regista Fabio D’Orta, inserito nella sezione Crazies del Torino Film Festival 41, ci trascina in un’attesa estenuante che sembra non risolversi mai.
Il bianco e nero ci trasporta in un luogo senza tempo. Lente carrellate riprendono le stanze desolate della villa mentre il suono crea una tensione intima e persistente.
Il film è come un’allucinazione, in cui l’irreale diviene più reale del reale stesso, attraverso elementi contrapposti in un ambiente austero minacciato da figure fantasmagoriche e colossali. Il film è il racconto di un’attesa, un limbo dove tutti gli esseri umani si ritrovano almeno una volta nella vita, in cui ciò che si aspetta è spesso sconosciuto anche se è già di fronte ai nostri occhi. Un certo simbolismo, non solo riguardo al tema del corpo come macchina, è presente nel film ma fatica a trovare la giusta declinazione. Le terrificanti creature sono, infatti, giganti organismi meccanici e anche la presenza di automobili dai tratti spettrali sottolinea, in qualche modo, il moto delle cose che, in realtà, non cessa mai.
Se il suono e la regia, profondamente consapevoli, ci portano ad aspettare che qualcosa accada, l’intreccio non si scioglie e lascia il pubblico con molte domande aperte. La sceneggiatura, ridotta all’essenziale, porta lo spettatore a condividere l’attesa illusoria degli stessi protagonisti, svelando soltanto nel finale la complessa struttura dei piani temporali del racconto.
Asia Lupo
Articolo pubblicato su “La Repubblica” il 1/12/2023