Čechov ha coniato un principio drammaturgico ormai celebre: se in scena c’è un fucile, non può non sparare. Nina (Patricia L. Arnaiz), il cui nome rimanda proprio a Il gabbiano, quel fucile lo porta sempre con sé. Dopo trent’anni a Madrid, ritorna nella sua città natale, pronta a colpire. Come una cacciatrice, attende il momento ideale per vendicarsi dell’uomo che abusava di lei quando era ragazza, una niña.
Vittima e carnefice si scambiano i ruoli e confondono le reciproche ossessioni: i ricordi del passato sono controcampi del presente, montati come due film che, in partenza paralleli e distinti, finiscono per convergere, perché «nella sua fine è il suo principio». La vendetta non è una questione privata, ma una riflessione sulla violenza e i limiti del consenso. Nina non punta il fucile soltanto contro il carnefice: nel mirino c’è l’intera comunità, imprigionata nei pettegolezzi e nei silenzi che hanno cercato di oscurare il suo punto di vista. Così la soggettiva voyeuristica che apre il film è anzitutto la rivendicazione di uno sguardo, a costo di puntare l’arma dritta contro lo spettatore.
Come per Samuel Fuller, la canna del fucile può essere metafora della visione, veicolo per ri-centrare lo sguardo sul femminile. Attraverso la lente cinefila di Almodóvar e della Sposa in nero di Truffaut, Jaurrieta evoca i melò di Sirk e ripensa Hitchcock, sin dalla musica e dai pedinamenti che alternano l’osservatore e l’osservato. Però oggi Nina non è un’eroina del cinema classico, non può perdonare e, tinta di rosso sangue, afferra il fucile. Ma alla resa dei conti, può quel fucile non sparare?
Ludovico Franco