Nell’incipit della Strada di Swann, Marcel Proust ricorda come da piccolo amasse osservare le immagini proiettate dalla lanterna magica: vere e proprie apparizioni che raccontavano leggende, come in una vetrata vacillante e passeggera. Su un’altura avvolta nella nebbia al confine con l’Iran, si distinguono le silhouettes di un uomo e un ragazzo a cavallo: il giovane controlla lo schermo di un computer portatile, nel tentativo di connettersi alla rete internet e acquistare l’occorrente per riportare in vita un vecchio proiettore analogico, rispolverato da un ex proiezionista dell’URSS. Manca però l’elemento imprescindibile per far funzionare la lanterna magica: la luce, data da una semplice eppure introvabile lampadina.
L’apparecchio cinematografico non è solo un mezzo per proiettare immagini in movimento, ma un depositario di valori da impiegare terapeuticamente per riunire una comunità. Il gesto del rispolverare implica il voler ripristinare uno statuto ontologico che precede l’avvento del digitale, fino ad arrivare al precinema. Come il piccolo Marcel, i due protagonisti giocano con proiettori artigianali, sperimentano con lenti d’ingrandimento e pezzi di cartone. Ripristinano la centralità del medium, qui inteso non in senso mcluhaniano, ma come supporto tecnico aptico, tangibile, smontabile e rimontabile, fatto di ingranaggi, lampadine e “alimentato” a pellicole.
Pre-digitale è anche il tipo di comunità che l’apparecchio è in grado di descrivere attorno a sé, riunendo spettatori che danno senso al cinema inteso come spazio sociale collettivo, capace di trasformare il privato in pubblico. Il documentario contiene, come un postscriptum metacinematografico, l’essenziale di quel meraviglioso prodigio che amiamo e che chiamiamo “cinema”: la proiezione di immagini in movimento, lo schermo, la sala, gli spettatori, l’animazione, la censura, il doppiaggio. Questa fiaba di cura e amore per le persone e le cose non segue solamente lo scorrere delle stagioni dall’autunno all’inverno, ma anche quelle della vita, perché il cinema è terreno fertile per confronti intergenerazionali.
Anche per questo, forse, Le retour du projectionniste è stato paragonato a Nuovo Cinema Paradiso: ma il cuore pulsante del documentario ha in effetti ben poco a che fare con Tornatore e con la sua ostentata cinefilia citazionista. Il respiro è piuttosto quello del cinema di Kiarostami: c’è tutta quella disarmante semplicità, l’intensità del bisogno di comunicazione, di scambio osmotico tra ordine vecchio e ordine nuovo (in primis il passaggio di testimone dal padre analogico al figlio digitale), il fare dei continui ritorni un simbolo dell’essere-nel-mondo. Non è casuale l’importanza del suffisso iterativo “ri”; sin dal titolo, si vuole ritornare, ricordare, ripristinare, ripetere e, dopo un piccolo fallimento, anche riprovare.
Ludovico Franco