“MADAME IDA” DI JACOB MØLLER

Che cosa si può arrivare a sacrificare per ottenere qualche briciola d’amore dopo una vita di fame? Forse persino la propria libertà. Madame Ida indaga le conseguenze della mancanza d’amore attraverso un racconto dal respiro tragico, denso di simbolismi.

Cecilia, un’orfana di soli quindici anni rimasta incinta, viene trasferita a casa di Ida, che adotterà il nascituro e che vive isolata dal mondo insieme alla domestica Alma. Tre donne, tre generazioni, un equilibrio precario. La casa è un luogo metafisico, specchio dell’esistenza interiore delle donne, talvolta luminosa e accogliente, altre volte tetra e inospitale.

Il regista Jacob Møller, componendo inquadrature statiche, crea dipinti dalla luce caravaggesca che richiamano le luci e le ombre delle relazioni tra le protagoniste, e colloca insistentemente i personaggi in cornici fatte di porte, finestre e specchi. Questo tipo di messa in scena è un indizio per lo spettatore: come l’uccellino di Ida, anche le donne sono prigioniere di una gabbia dorata. Solo quando Cecilia si perde nell’illusione di aver finalmente trovato in Ida quell’amore materno che non ha mai conosciuto, la macchina da presa sembra ribellarsi alla staticità e corre libera seguendo le donne nei loro giochi e balli. Møller, al suo primo lungometraggio, osa sul piano stilistico, creando una storia universale di morte e rinascita che affronta criticamente il tema della maternità.

Essere madri è un dono, una responsabilità, talvolta anche una condanna – e lo spettatore oscilla, anche grazie alle tormentate interpretazioni delle attrici protagoniste, tra compassione e disprezzo.


Francesca Strangis

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