Il regista osserva l’appartamento vuoto in cui ha vissuto per venticique anni. E’ in vendita, è spoglio. I muri, nudi e lividi, evocano ricordi, suscitano sondaggi profondi nella memoria. Il film prende le mosse da una casa vuota che si riempie, nella penombra, del vissuto d’infanzia di chi l’ha abitata. Presentato in concorso Internazionale Doc al TFF39, il documentario di Marko Grba Singh raggiunge un grado d’intimità potente. Quasi un memoriale cinematografico, Rampart afferra e rielabora il passato percorrendo la storia personale del regista e, con essa, un estratto doloroso della storia del suo paese: la guerra che, come un temporale improvviso, colpì Belgrado il 24 marzo del 1999.
Composto in buona parte da materiale di repertorio tratto da videocassette di famiglia, Rampart consuma il tema del rapporto tra storia individuale e Storia collettiva. Emerge il lato umano e “normale” della guerra: la confusione dei bambini, il terrore nascosto negli occhi degli adulti, i cani impietriti che tremano, la noia, gli allarmi, i bombardamenti che illuminano il cielo la notte. Gli sguardi del padre e del nonno, celati dietro la videocamera e trasformati in memoria visiva, sono il fiato e il sangue del film. Si fondono con quello del regista, allora bambino, ora uomo che rielabora dietro la macchina da presa.
Il film, quasi privo di dialoghi, procede in maniera diaristica. Didascalie in sovra-impressione scandiscono il racconto e conducono narrativamente lo spettatore. Il corpo del film è ibrido: immagini d’archivio famigliari dal formato in 4:3 confluiscono in riprese girate nel presente. Qui i tempi sono prolungati, le inquadrature fisse, pochi e precisi i movimenti di macchina; panoramiche-zoom-movimenti in avanti. La materia dell’immagine è lavorata in profondità a scavare un canale fantasmatico tra passato e presente. L’impiego ripetuto di dissolvenze incrociate liriche e graduali, amplifica la dinamica risorgiva delle immagini che sembrano provenire da falde nascoste oltre lo schermo. Lo sguardo è invitato a perforarlo, strato dopo strato, per sondarne lo spessore indefinito. Inquadrature insistite su porte e finestre socchiuse, aprono fessure che lo spettatore è spinto a riempire attivamente, sollecitato anche dai movimenti di macchina aggettanti. Il tessuto del film, così come quello della memoria, è fluido e stratificato. Più che superficie, l’immagine assomiglia a una membrana. A volte il raccordo tra passato e presente è marcato da distorsioni visive e sonore che generano bruschi salti temporali. Altre invece è un flusso dai contorni labili, indefiniti: il tema musicale di un videogioco cui il regista ha giocato per tutta l’infanzia applicato come commento sonoro; la sovraimpressione improvvisa di immagini in computer grafica tratte dallo stesso “Hero of Might e Magic III”; l’inserto asettico di uno spot pubblicitario alimentare degli anni novanta. Sono tracce sparse, spilli di memoria innestati naturalmente nel film.
La fotografia, calibrata su tonalità cupe e calanti, dà un sapore intenso alle immagini. Il minuzioso lavoro sulla luce e sui colori freddi contribuisce a dare vita agli spazi interni e imprimervi un afflato fantasmatico (già caratteristico dei lavori precedenti di Marko Grba Singh). L’appartamento di famiglia, trattato come estensione viva, sembra respirare insieme allo spettatore. Consente al regista di comunicare, attraverso la memoria, col suo passato e chi non esiste più. Rampart è un lamento intimo sullo scorrere inesorabile del tempo e sulla vertigine impietosa che lo accompagna. Tutti, prima o poi, scompaiono. I film restano. Questa è una sicurezza potente. Marko Gbra Singh riesce, con il suo lavoro, a toccare e fissare quel vuoto. Lo riempie di memoria.
Francesco Dubini