Grazie al perfetto restauro del Centro Sperimentale di Cinematografia, particolarmente attento a curare le tracce sonore (fondamentali per il senso del film), e alla presentazione nella sezione “Back to Life” del TFF39, il pubblico torinese ha potuto vedere, molto probabilmente per la prima volta, Number One di Gianni Buffardi (1973). L’opera, nonostante faccia della confusione il suo marchio distintivo e la sua ragion d’essere, è pervasa da una lucida follia e da una chiarezza d’intenti spesso sconosciuta ai “poliziotteschi” che in quel periodo inondavano i cinema italiani.
Sebbene Number One si basi, come molti film del filone appena citato, su di un fatto di cronaca realmente accaduto, nel raccontare lo scandalo per droga del night club che dà il nome al film, Gianni Buffardi decide di evitare la classica retorica giustizialista per mostrare invece una Roma filtrata da un pessimismo ed esistenzialismo che ricordano da vicino le atmosfere dei film di Di Leo. È proprio qui che subentra quella confusione di cui si diceva all’inizio: le linee narrative si mescolano a causa dei numerosi flashback, i personaggi incominciano a scagliarsi l’uno contro l’altro e il tutto viene pervaso da un umorismo brutale che non fa altro che aumentare la sensazione di spaesamento. Due scene in particolare mostrano, tramite l’uso sapiente del sonoro, le intenzioni di Buffardi. Nella prima, il regista, silenzia continuamente le voci dei numerosi personaggi all’interno del “Number One”, per presentarli invece tramite una serie infinita di sguardi in pieno stile depalmiano. Se questa scena serve a porre immediatamente lo spettatore in una posizione di svantaggio, la seconda non fa altro che perpetuare questa condizione. Nel momento in cui, durante il dialogo tra l’avvocato e il poliziotto (Renzo Montagnani) stanno emergendo degli elementi essenziali per comprendere meglio la narrazione, le due voci vengono sovrastate dal rumore dei tram e dalle macchine che circolano per strada.
Queste due scene non fanno altro che evidenziare ancor di più l’impossibilità di chiarezza e di risoluzione, sia per lo spettatore che per i personaggi. Non bastano neanche gli sforzi congiunti della polizia e dei carabinieri (caso più unico che raro) a sciogliere la situazione. Infatti, escludendo la giustizia privata – altro topos del poliziesco italiano – le forze dell’ordine non possono far altro che buttare l’esca, sperando che siano i criminali stessi a eliminarsi a vicenda. Questo però perpetua all’infinito la sensazione di impotenza di chi è costretto a vivere in città regolate esclusivamente dal caos.
Enrico Nicolosi