“IL SIGNORE DELLE FORMICHE” DI GIANNI AMELIO

1968. In un’aula di tribunale di Roma viene celebrato il processo a carico dell’intellettuale e drammaturgo piacentino Aldo Braibanti (Luigi Lo Cascio), accusato di aver “plagiato” (cioè circuito a scopi sessuali) due ragazzi. La sentenza lo dichiarerà colpevole, condannandolo a nove anni di reclusione.

Fa quasi impressione, a pochi mesi di distanza dall’uscita nelle sale di Esterno notte di Marco Bellocchio – con il suo 1978 cupo, plumbeo, da incubo –, osservare la patina solare, abbagliante, che Gianni Amelio sceglie di infondere al “suo” caso Braibanti; eppure, l’Italia da lui raccontata non è meno inquietante di quella mostrata da Bellocchio: ricoveri coatti, vessazioni, meschinità varie. Tutto questo doveva essere, però, soltanto un pensiero lontano per i due protagonisti della vicenda, Braibanti e il suo giovane amante, Ettore (Leonardo Maltese), quando si conobbero nel 1959 presso il laboratorio culturale gestito da Braibanti nell’assolata provincia emiliana: una piccola “isola felice” dove la cultura rappresentava un baluardo contro la mediocrità della provincia. Maestro e allievo finiscono qui con l’innamorarsi, legati da un’affinità intellettuale prima che fisica, e decidono trasferirsi nella Roma della “Dolce vita” nel 1964. Qui vivranno in pace per un anno, fino a che la famiglia di Ettore non verrà a riprenderselo per farlo rinchiudere in ospedale e per sporgere denuncia contro Braibanti. Da qui, l’inizio del processo infame.

Da uomo di teatro, il sanguigno Braibanti di Lo Cascio – che riesce a far emergere efficacemente tutti gli aspetti dell’intellettuale tenero anche se un po’ trombone e talvolta dispotico – sceglie con cura le parole quando descrive quello che vivrà in aula come una farsa a cui, per molte delle udienze, rifiuterà di prendere parte. Sarà solo Ennio, giornalista dell’”Unità” (un azzeccatissimo Elio Germano in un ruolo che guarda al Carl Bernstein di Tutti gli uomini del presidente), a spronarlo ad abbattere con la sua testimonianza gli stereotipi che ancora nel ‘68 gravavano sull’Italia; ma persino dalla comune area di riferimento, la sinistra, i due dovranno guardarsi le spalle.

Amelio racconta tutto questo con stile asciutto, servendosi di inquadrature chiuse ma ben calibrate e concedendosi talvolta dei momenti più ariosi – come nello struggente finale. Dirigendo i suoi attori con gusto (una menzione speciale la merita il giovane Maltese, che regge senza difficoltà il lunghissimo primo piano che il regista dedica al suo personaggio durante il processo) e attraverso una puntuale ricostruzione storica, Amelio racconta una storia di illusioni perdute, d’amore e d’odio, di sapere e di ignoranza; e, in tutto questo, le formiche tanto amate da Braibanti, con le loro comunità dove il benessere collettivo è la priorità, rappresentano il triste controcanto di un’Italia fatta più da bestie che da uomini.

Alessandro Pomati

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