Jenny (Emma Drogunova) e Bolle (Paul Wollin) vivono una relazione in cui si intrecciano amore e dipendenza. Nonostante la gravidanza, Jenny non riesce a rinunciare alle metanfetamine, di cui fa uso quotidiano insieme al suo compagno. La situazione precipita ulteriormente quando Jenny riceve un ordine di esecuzione di una pena detentiva, che la obbliga a presentarsi in un istituto carcerario.
Un senso di claustrofobia domina il film. Le inquadrature ravvicinate amplificano il senso di soffocamento e oppressione, e gli spazi angusti – sia l’appartamento della coppia sia la cella in cui Jenny viene rinchiusa – rendono plasticamente una costrizione che è tanto fisica quanto mentale.
La violenza delle azioni è mostrata esplicitamente: la macchina da presa indugia sul grembo della donna per poi arrivare alla pipa utilizzata per assumere le metanfetamine. Allo stesso modo, il parto viene mostrato in modo dettagliato, senza edulcorare la crudezza della situazione e senza celare la vista del sangue.
Vena, il lungometraggio d’esordio di Chiara Fleischhacker, riflette sulla crudeltà della separazione tra una madre e la creatura che ha partorito. D’altra parte, la condizione umana ed esistenziale di Jenny porta inevitabilmente lo spettatore a concentrarsi sull’esperienza e sul bisogno di amore della protagonista, sulla sua necessità di trovare qualcuno che possa, o avrebbe potuto, interrompere il vortice di scelte sbagliate che la trascinano verso il fondo. Come può una donna adulta salvarsi dalle conseguenze delle proprie azioni?
Beatrice Bertino