“ANYTHING THAT MOVES” DI ALEX PHILLIPS

La routine di un sex worker ai tempi delle app di incontri si intreccia con la routine di un serial killer talmente ossessionato da lui da arrivare a decimarne i clienti. Questo sviluppo narrativo sull’eterno accoppiarsi di sesso e morte può forse ricordare Maniac, Hollywood 90028, o Cruising (anche qui i poliziotti incarnano perverse forze del disordine). E come non pensare alla recente trilogia di Ti West, corollario dei body genres di Linda Williams?

Il film di Alex Phillips assorbe letteralmente qualsiasi cosa che si muove dal grande decennio dei Settanta: da John Waters ai racconti immorali, da Tinto Brass a Dario Argento, contiene dentro di sé il tutto e il nulla. Non si tratta, però, di un mero atto necrofilo per riesumare un modo di fare cinema deceduto da almeno quarant’anni. No, non è solo un esercizio manieristico o l’ennesima reliquia di riverenza cinefila. Anzi, il cortocircuito che nasce tra l’anacronismo dello stile “vintage” della regia e la presenza di dispositivi contemporanei (i cellulari appaiono come oggetti alieni) porta allo svelamento della sua stessa artificiosità.

La matericità dei corpi visibili – che sappiamo essere, in fondo, solo proiezioni – collide con la consustanziale falsità delle immagini, così come la performatività del sesso (e dell’omicidio) si dimostra una recita da cui proliferano forme di mercato e di cinema alternative. Perché Phillips arriva ex post, quando le pratiche intertestuali postmoderne sono già esaurite: citazioni, remake, ricalchi, cloni, sono ormai simulacri di immagini passate e invecchiate. D’altronde, horror e porno sono i generi in cui il corpo è uno spazio di negoziazione privilegiato per contenuti estetici e politici.

Sangue, fluidi organici, genitali e viscere permettono di recuperare la dimensione tattile e aptica dell’esperienza cinematografica, che il digitale, con la sua pulizia immateriale, tende a ridurre o cancellare. Da qui l’importanza dell’uso della pellicola, una pelle fuori moda che il contemporaneo può ancora indossare (se non è un atto gratuito). Girato in 16mm, il film muta la pelle di quelle stesse opere a cui rende omaggio, non ne imita la texture per un effetto fine a sé stesso. Un ritorno all’indietro che nel finale porta alla ricongiunzione di una coppia che abbandona la cultura in favore della natura, pronta a scopare qualsiasi cosa che si muove.

Ludovico Franco

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