Con Mo Papa, suo secondo lungometraggio di finzione dopo Mo Mamma (2023), la regista estone Eeva Mägi torna a esplorare la zona più fragile delle relazioni umane, scegliendo questa volta il legame tra padre e figlio. Il film si esprime con forza e chiarezza: la storia di un uomo che, pur desiderando una vita ordinaria e sforzandosi di agire rettamente, non riesce a liberarsi dal proprio passato e dai traumi irrisolti. La città che lo ha giudicato e un’infanzia che gli è stata
sottratta lo spingono lentamente verso la distruzione.
Accusato dell’omicidio del fratello, Eugen (Jarmo Reha) viene liberato dopo anni di carcere e cerca di rientrare nella società. Le uniche persone che gli sono rimaste sono i due amici dell’orfanotrofio e il padre che lo ha abbandonato da tempo, con cui decide di ricostruire un rapporto. All’inizio una riconciliazione sembra possibile, ma il padre lo lascia nuovamente proprio nel momento del massimo bisogno.
La sensibilità per il reale di Mägi, che ha esordito come documentarista, è nitidamente riconoscibile e allo stesso tempo ogni dettaglio dell’inquadratura risulta studiato con cura. Ai dialoghi, la regista preferisce immagini e azioni su cui si regge la progressione emotiva del film: emblematici, in questo senso, i primi incontri di Eugen con gli amici dell’orfanotrofio, che non iniziano con i dialoghi bensì con abbracci, risate e l’imitazione dei suoni degli uccelli.
Mo Papa si chiude con il protagonista che si avvicina a una grande ruota panoramica, una giostra finora rimasta sullo sfondo: un’immagine che può essere letta come il simbolo di un’infanzia mancata che chiede ancora di essere vissuta. In quel momento Eugen, in fuga dalla città che sembra volerlo divorare, guarda dall’alto lo spazio urbano e, per un attimo, sembra essersi finalmente liberato.
Dina Aghaei
L’articolo è stato publicato su “la Repubblica” il 25 novembre 2025
