“LEVERS” DI RHAYNE VERMETTE

E se un giorno il sole non dovesse sorgere? Questa ipotesi assurda diventa la realtà di Levers, secondo lungometraggio della regista canadese Rhayne Vermette.

L’evento scatenante è un colpo di cannone sparato per l’inaugurazione di una nuova statua in una cittadina del Manitoba: da lì il buio, un’eclissi lunga un giorno. L’esplosione segna così l’inizio di un nuovo ordine delle cose. Il motivo non è chiaro né a noi spettatori né ai personaggi che popolano il film come presenze rarefatte, corpi che sembrano agglomerati di luce e non di materia. L’appartenenza indigena di molti di essi – e della stessa regista – ci ricorda che esistono concezioni di vita altre, evidentemente più capaci di preservare il legame con la Terra. Poiché l’assurdo della situazione supera la tragedia, ai personaggi non resta che persistere nelle proprie abitudini e cercare di indovinare cosa succederà. Sarà forse che al crollare di ogni certezza non c’è più religione, o scienza, che tenga.

Girato in pellicola con una vecchia cinepresa Bolex Paillard, Levers si distingue per le immagini buie, sgranate e sature e per la sua vocazione sperimentale che diventa un mezzo per mostrare le cose nella loro natura più autentica. Paradossalmente, si ha l’impressione di “vedere come un cieco”, ovvero di vedere le cose per la loro qualità e non per il loro aspetto: il buio neutralizza i contorni e apre la strada all’essenza. Anche il suono gioca un ruolo fondamentale poiché “parla” molto di più della voce umana e sembra scaturire direttamente dalla Terra. Il montaggio diventa così un gioco esoterico tutto da esplorare, che ci riporta alle origini del cinema e alle prime sperimentazioni delle avanguardie.

 Levers, più che un film da vedere, è un film da sentire o, meglio, da percepire.

Elena Sartore

Articolo pubblicato su Repubblica

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