Girato in pellicola 65 mm, Black Ox di Tetsuichiro Tsuta è un’opera che si ispira alle dieci icone del mandriano (o del bufalo) della tradizione Zen. Dalla prima (“La ricerca del bufalo”)
all’ultima (“Il ritorno alla sorgente”), il film mette in scena le diverse tappe del percorso spirituale verso l’illuminazione buddista.

Siamo in Giappone nel XIX secolo: come se fosse davanti a un racconto fotografico, l’occhio dello spettatore è condotto a contemplare la natura che sovrasta un uomo minuscolo al suo cospetto. In una realtà dove viene concesso lo spazio e il tempo di esistere a ogni mormorio e
sussulto, l’uomo attende seduto tra le rocce. Mentre la pazienza e il contatto con la terra lo immergono in una profonda fase meditativa, la macchina da presa si avvicina al volto incorniciato dal vapore, svelando allo spettatore il silenzio della sua mente. Sarà l’incontro con un grande bufalo nero a determinare l’inizio di un legame primitivo. L’animale colmerà lo spazio che circonda l’uomo e, se in un primo momento era la natura a imporsi sullo schermo, ora ciò che regna è la pacifica coesistenza e la cura verso l’altro e se stessi. Si crea nel calore della stalla un’interferenza di suono, i due respiri interagiscono, si sovrappongono e aumentano la loro forza alimentandosi a vicenda. Con la morte del bufalo il respiro umano si fa animalesco e viscerale, sottolineando il collegamento intrinseco e l’influenza reciproca tra uomo, animale e ambiente. Come ultima tappa vi è l’annullamento del sé. L’uomo è ricoperto da uno strato di gelo e, ormai stanco, si fa tutt’uno con la neve. Lo schermo diventa bianco per qualche secondo e dal bianco e nero si passa per la prima volta al colore. Vivo è il fuoco nelle ceneri; e i campi, dove i bufali continuano a pascolare indisturbati, scintillano ramati, vibrando nel vento.

Martina Oliva

Articolo pubblicato su “La Repubblica Torino” online il 30 novembre 2025.