Con His Master’s Voice l’ungherese György Pálfi, distintosi grazie al visionario Taxidermia, conferma la libera sperimentazione come imprescindibile approccio al mezzo cinematografico.
Il film, ispirato al romanzo La Voce del Padrone di Stanislaw Lem, racconta del viaggio intrapreso da Péter dall’Ungheria agli Stati Uniti alla ricerca del proprio padre, scienziato fuggito dall’Est Europa comunista abbandonando la famiglia negli anni della Guerra Fredda.
È questa ricerca delle proprie origini a costituire una delle tematiche principali di un film difficilmente incasellabile all’interno di etichette di genere, che si sposta dal road-movie alla fantascienza, fino al dramma familiare.
La necessità di Péter di conoscere il proprio padre si collega infatti ad una più ampia riflessione sulla genesi dell’umanità intera, sulla percezione della morte come esperienza comunitaria e sulla costante ed insopprimibile esigenza filosofica della ricerca del vero. Pálfi sceglie di esprimere questi argomenti tramite un flusso ininterrotto e travolgente di immagini, a cui talvolta si fatica a stare dietro, tra sinfonie visive e deliri allucinatori del protagonista.
La ricerca di interconnessione è un altro dei tasselli fondamentali, pervasiva esigenza di comunicazione evidenziata dall’onnipresenza di elementi tecnologici, quali schermi di smartphone e computer utilizzati compulsivamente da Péter per comunicare con i propri cari.
È in questo frangente che si inseriscono inoltre i continui inserti da documentari, video e reportages giornalistici, schermi nello schermo in un mise en abyme che delinea una visione ironicamente impietosa del sistema mediatico.
Il regista ungherese gioca inoltre con il cinema in sé ed il suo passato, tramite digressioni che costruiscono un film parallelo, che mette in scena i principali topoi del genere sci-fi. Si stratificano così diversi livelli di narrazione, interconnessi sostanzialmente dalla volontà da parte dello scienziato di stabilire un contatto con forme di vita extra-terrestri e che ha esiti disastrosi.
Eppure tutto, come suggeriscono le immagini finali del genogramma universale, sembra potersi ricondurre ad una logica imperscrutabile, quella della “voce di Dio”, ed all’essere umano non resta quindi che il tentativo di decifrarla con i propri mezzi, investigando ciò che si cela negli interstizi di algoritmi e costellazioni.