Sayat Nova è un poeta armeno del 18° secolo, un troubadour che cantava i suoi versi in tre lingue diverse, un monaco che trascorse la sua vita nella sofferenza e nel tormento (come viene ripetuto più volte durante il film), innamorato della principessa Anna della Georgia.
Un personaggio complesso e quasi mitico è protagonista del film realizzato da Sergei Parajanov nel 1969, che inizialmente fu censurato dal governo sovietico il quale impose anche un titolo diverso dal nome del poeta: Il colore del melograno.
Julien Temple porta questo film al TFF33 nella sezione “Questioni di vita e di morte” e se ne può capire la ragione: la vita del poeta, raccontata in maniera onirica, surreale, pittorica e simbolica, si mescola ad un continuo sentore di morte, fisica e psicologica.
Per un’ora e mezza a parlare non sono gli esseri umani presenti sulla scena, ma voci extra diegetiche, scritte in armeno che intervallano la proiezione come nel cinema muto, oppure rumori amplificati come quello dell’acqua che scorre sulle gambe dei monaci. Le immagini dai colori vividi e allegorici sembrano veri e propri quadri in movimento: il rosso, il bianco e il blu si ripetono in continuazione nelle loro tonalità sature rimandando alle decorazioni armene della stessa epoca coeva in cui visse il poeta.
Il rapporto di 4:3 pare adatto a questa ricerca pittorica in cui ogni inquadratura sembra un quadro che si collega in modo perfetto a tutte le altre con un montaggio non narrativo. Appaiono oggetti e animali appartenenti all’iconografia della cultura armena (galli, melograni, conchiglie, ecc.), dotati di un significato allegorico che sfugge al pubblico occidentale ma ugualmente affascinanti per la loro pregnanza visiva.
La sensazione ad una prima visione è duplice. Da una parte si rimane completamente catturati dallo splendore di ciò che si presenta davanti agli occhi, dall’altro non riusciamo a formulare un’interpretazione razionale, come se ciò che l’occhio vede non fosse possibile da rielaborare.