Presentarsi a un festival cinematografico con un film senza trama e senza attori, o è il salto di un pesce fuori dall’acqua o è l’azzardo di chi sa nuotare controcorrente.
Ma spostando l’attenzione da ciò che non ha a quello che porta con sé, l’operazione di Guillermina Pico inscena un collage video-artistico di riprese con camera a mano all’interno di una vita comune. Virtuosista indifferente alla costruzione di un sistema di personaggi riconoscibili, moduli narrativi e nessi logici in cui il suo spettatore possa accomodarsi sicuro – insomma apparentemente incurante dell’abc – la regista argentina alterna le profonde rime di una poesia da lei scritta (il titolo viene dal primo verso) con inquadrature del tutto casuali. Cavalli al pascolo nella Pampa sudamericana; conversazioni tra amici o in famiglia; balletti intimi in camera da letto; una ragazza che scannerizza la natura circostante con un registratore. E poi lezioni di piano e viaggi, tanti viaggi, in macchina, in treno, in taxi, in un mondo sempre più incomprensibile a chi continui a cercare di ricomporre tutto, di tessere i fili della ragnatela. Qualcuno potrebbe dire di saper fare anche lui l’ultimo “Pollock” della Pico, eppure non lo fa e arrabbiato esce dalla sala. Tradito. D’altronde si aspettava un film sull’amore.