La storia italiana e le sue Caporetto, per chiedersi a cosa servono i morti e scoprire a cosa servono i vivi. Davide Ferrario ci racconta il nostro Paese degli ultimi cento anni attraverso quattro storie unite da un fil rouge: la sconfitta.
Il regista specifica immediatamente durante la conferenza stampa come il documentario non sia nato per l’anniversario della sconfitta di Caporetto, ma da una suggestione: come il nostro Paese in eventi tragici di sconfitta, ha dimostrato sorprendenti capacità di reagire. Quello che emerge dal film è la peculiarità di un popolo resiliente. Cento anni inizia con la melodia Havun Havun mentre percorriamo cimiteri della Prima Guerra Mondiale, e il montaggio si sofferma soprattutto sui migliaia di soldati senza un nome.
E poi iniziamo: primo capitolo, è il 1917, e cinque attori ci raccontano una disfatta di Caporetto vista da diversi punti di vista, ossia quello degli orfani, quello dei profughi e quello dei prigionieri di guerra. Secondo capitolo, 1922: scopriamo la storia di un fascista ucciso e poi vendicato diciassette anni dopo, tratta dal libro L’eco di uno sparo di Massimo Zamboni. Terzo capitolo, siamo nel 1974 in Piazza della Loggia (Brescia), e assistiamo alle testimonianze di diverse generazioni sulla strage causata da una bomba fascista. Una domanda compare più volte: a cosa servono i morti? Ma il quarto capitolo, il presente, ci apre gli occhi, di fronte ad una Caporetto demografica, con un’Italia devastata dalla desolazione dello spopolamento, la quale ci viene mostrata con una chiave estetica intensa. A cosa servono i vivi?
Il film non vuole avere un tono pessimista o vittimista, e nemmeno fare un discorso lineare. Ogni episodio è un tassello di questi cento anni, che ci aiuta a capire dove siamo oggi, con uno sguardo all’umanità. L’intensità con cui tutto ci viene raccontato è già sufficiente a farci comprendere la nostra realtà, perché nella sconfitta è più chiaro vedere chi siamo.
“La sconfitta è la condizione della speranza. Se non c’è la sconfitta puoi pensare forse a qualcosa di meglio, ma è qualcosa di meglio stupido. Noi italiani amiamo parlare male di noi stessi, autoflagellarci. I film servono ad avere una maggiore chiarezza” (Davide Ferrario)