I Used to Sleep on the Rooftop è il primo lungometraggio realizzato da Angie Obeid, giovane regista di origine libanese. Un lavoro intimo su più livelli: la macchina da presa si muove indiscreta tra le mura dell’appartamento della stessa regista (e lì rimane per tutta la durata del film), la quale racconta attraverso i suoi occhi la storia di Nuhad. Nuhad vive a Damasco con il marito e due figli (uno dei quali amico di Angie): lo scoppio della guerra porta la donna a rivalutare la propria vita e prendere una scelta, quella di partire.
Destinazione è l’appartamento di Angie dove la donna rimarrà per dieci mesi, nel centro di Beirut: due figure femminili appartenenti a generazioni differenti ma unite da un’attesa comune. Angie aspetta una telefonata per la realizzazione del suo futuro; Nuhad attende l’occasione giusta per lasciare il proprio continente e giungere in Germania, attraversare la Francia, la Spagna, forse giungere in Portogallo. I giorni scorrono uguali, scanditi da pranzi sul terrazzo, telefonate, pulizie, il suono della fisarmonica di Angie, la risata di Nuhad, le confidenze sul divano e sui materassi stesi a terra, e il costante ronzio del ventilatore a fare da sottofondo.
«Volevo parlare della mia storia e della sua storia» – racconta la regista – «ma quella di Nuhad si è rilevata più interessante». L’età non è un vincolo: Angie sceglie di raccontare principalmente una storia di coraggio, quello di Nuhad di abbandonare la propria famiglia e la propria città non a causa della guerra, ma per ritrovare se stessa. Nuhad è un esempio, l’esempio del cambiamento delle donne siriane e una conseguenza della guerra in atto, dei cambiamenti che questa ha portato sulla struttura sociale e personale di ogni individuo. Nuhad si mette in gioco, impara le prime parole di francese, e fa tutto da sola, dandoci l’impressione di non avere mai un dubbio o un momento di debolezza. Ma Nuhad ogni mattina accende la radio e ascolta l’oroscopo alla ricerca di una risposta da quella voce sconosciuta, nella speranza che questa le dia conforto su un domani a lei ignoto. «Come pensi che sarai da vecchia?» chiede Nuhad ad Angie; Angie la osserva, la scruta per qualche istante, ma poi non risponde. Due profili femminili complementari, ma costretti a separarsi. Nella scena finale l’appartamento di Angie è vuoto, l’ultimo ad essere portato via è uno specchio: Angie si riflette con la propria macchina da presa, ora è sola, non potrà più riconoscersi negli occhi di Nuahd.
L’attesa è finita, il desiderio di andare altrove viene realizzato. Un documentario strettamente autobiografico e un modello di coraggio femminile non solo per la società orientale ma anche occidentale.