“LET THE SUMMER NEVER COME AGAIN” di ALEXANDRE KOBERDIZE

Uno strumento a fiato suonato con incertezza ci apre la porta di un mondo sfocato, anch’esso incerto.

Let the Summer Never Come Again è interamente girato con un cellulare di vecchia generazione e la scarsa qualità dell’immagine emerge fin dall’inizio in maniera imponente. Il regista ricerca l’imprecisione, e noi siamo costretti a non sapere, a non poter osservare pienamente ciò che ci viene mostrato. Non c’è bisogno di vedere bene per capire il disagio che trasuda da ogni sequenza: è questa la poetica di cui è intriso il film.

Il protagonista dell’opera prima di Alexandre Koberdize è un giovane ballerino georgiano, che si reca a Tbilisi per un provino; ricevendo numerosi rifiuti da parte di noti coreografi, reinventa la sua vita attraverso la storia d’amore con un poliziotto.

La trama è piuttosto semplice e si dipana in tre sezioni, che vengono scandite da una dissolvenza in nero, accompagnata dai rispettivi numeri del blocco narrativo, e da un’unica sequenza in alta definizione che si ripete per tre volte: una camera inquadra una sala proiezioni, e veniamo dunque trasportati in un cinema. L’autore spiega cosa sta raccontando attraverso una voce off che narra un episodio legato alla guerra e richiamando una sensazione olfattiva vissuta in prima persona. Pur non riuscendo a cogliere a pieno, è come se quel momento dovessimo percepirlo con tutti i sensi anche noi, per prendere coscienza della narrazione.

Il protagonista si muove con i mezzi pubblici, che vengono mostrati attraverso i dettagli dei volti e delle mani di chi li popola. Viaggiamo insieme al ballerino da un treno all’altro e osserviamo i monumenti della città, il flusso della folla, soffermandoci in particolar modo su oggetti, animali e bambini.

La pixellizzazione dell’immagine, il formato quattro terzi dell’inquadratura (in gran parte fissa) e l’assenza quasi totale di dialoghi producono un effetto inaspettato: le immagini non sono definite, ma sono così tante e pregnanti da restituirci un intero mondo. La musica si impone in tutti i momenti come elemento narrativo fondante, che spesso risulta volutamente incoerente con gli episodi che avvengono. Il tempo della storia e quello del racconto sono indefiniti. Non sappiamo quando sono avvenuti gli eventi e l’unico elemento collocabile in un momento preciso è il racconto della voce off negli intermezzi dei blocchi narrativi.

Lo spettatore tenta di ricostruire una storia passata (legata ai racconti di guerra) osservando gli accadimenti del presente. E se l’estate è un periodo legato alla positività e il desiderio comune è che questa arrivi presto, Estate nel film è invece sinonimo di guerra l’incertezza del domani si riflette sulla tecnica registica.

L’unico vero auspicio è che quel momento non torni mai più.

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