Una madre e suo figlio, soli in una casa dimenticata da Dio su una costa grigia e sabbiosa. È sempre dura superare un lutto. Beth spera che la calma della spiaggia possa riportare la normalità, possa essere un ritorno alla vita. Si lascia andare all’astrattismo multiforme e multicolore della sua arte ma ormai non sente più nulla. Le emozioni sono state spazzate via, si sono smarrite in quel mare che sembra trattenere ogni cosa nell’area del promontorio, senza lasciare via di fuga. I due sono circoscritti in un alone onirico nel quale le più strane presenze prendono vita, minacciando di separarli in nome di una verità superiore.Storia avvolta nel mistero quella della seconda fatica del regista canadese Seth A. Smith che, nonostante i limiti inevitabilmente imposti da una produzione indipendente fatta “in casa”, con sua moglie Nancy Ulrich ad occuparsi della produzione e suo figlio, il piccolo Woodrow Graves, interprete principale, non rinuncia ad un horror ambizioso nella forma e dalle atmosfere vagamente lynchiane.
E ambizioso viene ad essere sicuramente il modo di presentare il film: camera fissa, pochi movimenti di macchina mai repentini ma trattenuti e pacati, un ritmo lentissimo che quasi ci fa pensare che nulla possa accadere. Le giornate di mamma e figlio si susseguono tra passeggiate sulla spiaggia, quadri dalle strane forme e libri per bambini. La tavolozza di toni grigi ci fa assopire, portandoci quasi all’interno di quella tranquillità apparente vissuta dai protagonisti. Poi lo sconvolgimento. La forza cromatica dei dipinti di lei rapisce e catapulta nuovamente nella realtà. E così, alternando questi due momenti per il resto della pellicola, Smith ci accompagna verso lo scioglimento della verità finale, sempre in bilico tra immaginazione e reale, tra vero e falso esattamente come in un sogno.
Ambiziosa e, a dire la verità molto coraggiosa, la scelta di lasciare al giovanissimo Graves l’intera scena in più momenti della narrazione. Il bambino si mostra comunque a suo agio davanti all’obiettivo e colpisce per la dolcezza e la spontaneità dei suoi dialoghi che, visti gli appena due anni di età, non possono dirsi pienamente inseriti in una consapevolezza recitativa.
Una “naturalezza indiretta” che, unita ai momenti di routine giornaliera scelti da Smith, crea uno strano effetto documentario che si rivela importante nella resa estetica finale proprio per via del suo essere destabilizzante.
Il film ci mente, ci imbroglia, ci confonde. D’un tratto non sappiamo più dove realmente si trovino i protagonisti: in un’inquietante abitazione sul mare o semplicemente in un incubo. La verità, mai come in questo caso, pare essere nascosta lì, al limite, nel momento in cui la Luna non si è ancora compiuta, crescente appunto, nel limbo che separa la vita dalla morte.