Una porta rossa. Un ascensore. Noi dentro. È in questo modo che Anna Franceschini, autrice di What Time Is Love, ci fa entrare in un luogo strano e desolato. Siamo a Norimberga in un edificio dove, lo capiamo subito, vengono testati dei giocattoli. Lo scopo: quello di ottenere l’idoneità per entrare nella Comunità europea. Le immagini, per lo più inquadrature fisse, si susseguono: un panda ballerino, una renna sassofonista, una trattore di plastica, un elefante di peluche subiscono quelle che sembrano vere e proprie torture, perché in fin dei conti, anche gli oggetti possono subire violenza. Ed è proprio dalla violenza che è partita la regista, durante la presentazione del suo corto nella sala 2 del cinema Massimo, confessando ciò che questo suo video forse vorrebbe rappresentare: ovvero una metafora di quello che alcuni, molti, troppi, esseri umani in questi anni devono affrontare per superare la stessa prova di quei giocattoli, e “farsi adeguati”. Una suggerimento di cui lo spettatore necessita per individuare una strada interpretativa che non risulta del tutto immediata, soprattutto considerata l’alta probabilità di perdersi in una ricercatezza estetica fin troppo evidente.
La selezione di Italiana.Corti quest’anno è davvero policroma e il secondo video ad essere proiettato è Horror vacui di Matteo Zamagni. Brevissimo corto dal sound potente, da farlo quasi sembrare un thriller, ma in realtà sono tre minuti in cui immagini naturali e creazioni in computer grafica si alternano, confondendo lo spettatore che difficilmente riesce a distinguere cosa è reale e cosa non lo è.
Molto breve anche il primissimo lavoro di Elettra Bisogno, pure lei presente in sala e visibilmente emozionata nel provare a dirci qualcosa su Ultima cassa. Un film che nasce dall’esigenza dell’autrice di condividere quella che ha ritenuto un’incredibile fortuna, l’aver incontrato alcuni pastori-cacciatori di Teulada, nel Sud della Sardegna, il cui isolamento li ha trascinati in un mondo per noi troppo lontano.
Parlando ancora di tempi, il più lungo dei quattro selezionati per il Programma 2 è Et in terra pacis, del regista salentino Mattia Epifani, che nel salutare la sala ha sottolineato il suo mancato pentimento per essere andato oltre i quindici minuti canonici, facendo trapelare una non lieve critica nei confronti di un mercato ancora ostile nei confronti della forma breve. Et in terra pacis parte dall’osservazione dell’ormai abbandonato cpt Regina Pacis presso San Foca, sulla costa adriatica del Salento, al centro di molta cronaca nei suoi anni di attività dal 1998 al 2006. Un luogo che, per chi è cresciuto a Lecce in quegli anni, e lo posso confermare venendo proprio da lì, ha rappresentato una realtà con cui in un modo o nell’altro è capitato di confrontarsi. Proprio per questo il film di Mattia Epifani è un’opera utile quanto delicata, nonostante la teatralità di alcuni passaggi, che però non ne minacciano la validità. La materialità delle scene che mostrano le operazioni di smantellamento, accompagnate dalle registrazioni degli interrogatori ai migranti maltrattati, si adatta all’atmosfera onirica e cupa delle scene dedicate alla fuga, in una complementarità capace di restituire totalmente le intenzioni del regista.