Ogni anno il Torino Film Festival in collaborazione con il DAMS dell’Università degli Studi di Torino organizza un incontro con una figura rilevante della storia della cinematografia italiana. Quest’anno è stata la volta di uno dei più illustri direttori della fotografia: Luciano Tovoli. Presenta Emanuela Martini e al tavolo insieme a Tovoli, siedono Franco Prono e Piercesare Stagni. La sala è gremita e la masterclass non tradisce le attese.
Tovoli è un’enciclopedia di conoscenze, ma soprattutto un magma incandescente di passione traboccante, travolgente. La sfera delle sue competenze non si riduce alla fotografia – la tecnica, la luce, i colori -, ma abbraccia, come quella d’ogni grande artista, l’insieme intero dell’arte del cinema. D’altronde la sua esperienza è vastissima, epocale: in lui vivono i ricordi di collaborazione coi più grandi del cinema nostro e mondiale. Inizia a lavorare, come operatore di macchina, con Vittorio De Seta in Banditi a Orgosolo. Tovoli racconta l’aneddoto del loro incontro siciliano – sempre con quel piglio solare e appassionato, ironico e amabile – come fosse stato un avvenimento casuale, coincidenziale; eppure viene da credere che si trattasse semplicemente della prima tappa necessaria di un destino già tracciato. E infatti Buñuel, Antonioni, Comencini, Argento, Ferreri, Zurlini, Scola, Moretti. Ad accomunare tutti i nomi la fotografia precisa e tagliente di un direttore della fotografia che sarebbe il caso di chiamare grande autore, perché creatore della luce, ovvero il primo grande strumento vitale della cinematografia.
Parte proprio da qui, il maestro. Ci si chiede, con lui, che fine abbia fatto la creatività della luce nelle produzioni d’oggi. Bersaglio critico di Tovoli non è l’industria – non sono i registi, non i produttori –, ma la tecnologia stessa, che “forza i nuovi cineasti a non pensare più alla creatività della luce, che è l’unico elemento che contraddistingue il cinema dalla letteratura”. Applausi. Perché al di là dell’efficace retorica di Tovoli, a tutti è evidente – confrontando l’immagine catartica del cinema di ieri con la piattezza svilente dell’immagine oggi, la cui perfezione noiosa è garantita dalle
telecamere sensibilissime – che la differenza è nell’utilizzo sterile e standardizzato della componente luministica.
Stesso discorso valga per il colore. Tovoli racconta i suoi inizi come fotografo: ricevuta una Leica da un amico, sperimenta, osa, prova a rendere la grazia dei colori naturali. E tra le sperimentazioni più riuscite c’è il Technicolor, miracolo avveniristico di giovani studenti del MIT capitanati da Herbert Kalmus. Tovoli si prodiga in un excursus storico che parte dai primi tentativi nel lontano 1915, col Technicolor Process 1, e giunge fino ai capolavori dell’iconico Process 4 (non per nulla definito il Glorious Technicolor). Fu Disney il primo a riconoscere il valore artistico e tecnico di un processo che consegnerà ai posteri, grazie alle “vivacità dei suoi colori”, capolavori come Gone with the Wind (1939), The Wizard of Oz (1939), Singin’ in the Rain (1952), e la trilogia che decretò la gloria (tristemente postuma) dei maestri del neoromanticismo inglese, Michael Powell ed Emeric Pressburger.
A Matter of Life and Death (1946), Black Narcissus (1947), The Red Shoes (1948). Tovoli si commuove a nominarli. Ma si badi bene: qui l’elogio non è per i due visionari inglesi, ma per il suo collega – “un maestro al cui confronto noi altri siamo dei mediocri”, chiarisce Tovoli – Jack Cardiff, Oscar per la cinematografia nel 1947, proprio con Black Narcissus. E nelle due inquadrature che presenta in conferenza, l’autore della fotografia nostrano fa brillare gli occhi della platea. Perché le immagini che presenta, un miracolo di perfezione luministica, dimostrano quanto il cinema abbia non solo conversato con la tradizione pittorica, Vermeer in primis, ma da questa sia stato in grado di emanciparsi, sfolgorando – anche attraverso gli indubbi meriti, appunto, del Technicolor – per l’abilità creativa di chi la luce sapeva manipolarla con una grazia senza eguali: gli autori della fotografia.
E allora Luciano Tovoli, direttore della fotografia che, dalla nomina a primo membro onorario, nel 2007, di Imago (la Federazione europea dei direttori della fotografia) si batte con fierezza per consegnare nelle mani dei futuri colleghi la co-proprietà delle opere cinematografiche cui lavorano (a oggi la sua battaglia ha convinto 11 paesi europei a legiferare, in questo senso, a loro favore); Luciano Tovoli che ci lascia in eredità capolavori del calibro di Professione: Reporter, Suspiria, Il deserto dei Tartari e chissà quali opere future; e Luciano Tovoli, che, più che una passione, dimostra amore viscerale per la macchina da presa e le sue possibilità luministiche.
La masterclass si chiude con le immagini di Titus, ennesimo suo capolavoro di luci: e il volto di Anthony Hopkins, illuminato dalla finestra e da una candela bruciante a lato, non sono certo un Vermeer, ma il magistrale Tovoli.