I fini intenditori a Cannes l’hanno bollato come giochino fine a se stesso, come pasticciaccio brutto o esperimento formale non all’altezza delle sue ambizioni. Meno sonora, più pacata, la schiera degli entusiasti, che alla kermesse francese pure erano presenti e l’hanno applaudito tanto quanto i detrattori lo hanno fischiato. Il nuovo film del regista rumeno un pasticcio, diciamolo subito, lo è per davvero: postmoderno, però, e non ruffiano.
Etichetta detestabile e abusata, “il postmoderno”, ma azzeccata quando si cerca la parola chiave per catalogare questi brodi artistici in cui tutto entra dentro: il profluvio di citazioni, l’instabilità della tempolinea del racconto, il mix incoerente di generi musicali e l’accavallamento costante di generi cinematografici. Perché, e se lo chiedevano tutti ieri all’uscita della sala: cos’è che abbiamo appena visto? Un po’ commedia, un po’ noir, molto crime: un’amalgama di registri e timbri e fischi. Io non so. La certezza, però, è che Corneliu Porumboiu un’idea ce l’avesse ben chiara: una teoria, cioè, e la necessità di divertire per spiegarla senza arrancare. Andiamo con ordine.
Parte con una serietà sconvolgente, La Gomera. Campo: un ometto rigido e pelato, teso e anche un po’ frastornato (si chiama Cristi – interpretato da un Vlad Ivanov bartlebyano). Controcampo: la Gomera, isola minore delle Canarie. Terra secca e arsa dal sole, non come il volto dell’uomo cenerino per l’ombra. Si scoprirà presto che l’isola è il covo di una banda di criminali internazionali – la sede del traffico losco che determinerà lo snodarsi della trama. Poco male che di questa trama pochi sappiano descrivere i twist e i plot-twist, ché il senso dell’opera sta, come si accennava, in quella teoria che è l’unica certezza del film.
La teoria è: c’è un problema nella comunicazione verbale, nel linguaggio interpersonale tra gli uomini. E’ un’ossessione di Porumboiu, il linguaggio, e l’ha ripetuto a più riprese durante la conferenza stampa di presentazione al TFF. Ecco, però: come si applica questa teoria a un’arte così dialogica come quella dei film a soggetto? Il peso morto dei concetti, la noia che veicolano (che palle il cinema impegnato!) rende difficile il concretizzarsi in narrazione dell’astratto. Detto in modo semplice: è difficile divertire dicendo qualcosa di sensato. Ecco, allora, la trovata geniale del regista di Bucarest: utilizzare la lingua pre-verbale nativa – toh! – della Gomera – una lingua fatta solo ed esclusivamente di fischi. E quindi: l’ometto fosco sbarca nell’isola per imparare il Siblo (questo il nome della lingua) sotto la guida di un membro del gruppo criminale. Insieme a loro Gilda (Catrinel Marlon), vertice iconico del film per quanto infiamma lo schermo. Nascerà l’amore e niente sarà più lo stesso. Ostacolati dalla banda, la femme fatale e il suo diversamente bello rimarranno a galla, in questo mondo intorpidito da una lingua che loro non vogliono parlare, proprio persistendo a comunicare in Sibli, la lingua del paradiso e dell’amore: lingua che non può ingannare.
Opera matura, internazionale, sincera e divertita; opera fresca, sicuramente originale; opera postmoderna, dicevamo, ché il pasticcio è veramente tale. Spiegava in conferenza stampa Porumboiu che tutte le scelte che qui sto definendo postmoderne (s’intendano i riferimenti cinematografici, come il nome stesso della protagonista, o le musiche alte e basse) servivano per descrivere la personalità e l’evoluzione degli stati d’animo dei personaggi. Non si cita fortuitamente quel campo e controcampo, perché nel corso della vicenda ne seguiranno altri: e ogni volta lo sguardo di Cristi rifletterà in controcampo l’ambiente emotivo del suo animo. Valga questo commento per tutto, meno che per le scelte musicali – diciamolo senza remore: un po’ buttate lì a casaccio. Dice il proprietario dell’ostello in cui soggiornano alcuni dei protagonisti, che la musica (lirica) che lui ascolta a tutto volume serve per “educare i clienti”. Con un po’ meno di spocchia, per quel che mi riguarda, il regista rumeno avrebbe raggiunto almeno una vetta (quella del mio cuore). Così, invece, La Gomera rimane un film stravagante, con un soggetto e un’idea geniali ben calati nella trama (dall’alto dell’astratto al basso del concreto); un film micidiale a tratti e un po’ troppo gratuito o didascalico in altri.
Purtuttavia, e sarà forse l’affinità al tema della problematicità della comunicazione – intesa come trappola linguistica, à la Wittgenstein -, o sarà quel che sarà: per chi scrive La Gomera è uno dei vertici teorici della stagione. D’altro canto, in tempi umani e troppo umani come questi, ogni tentativo di disumanizzare l’uomo e la sua ragione dev’essere applaudito e sollecitato. Certo è che per imparare la lingua non volgare della natura – che è quella del paradiso e dell’amore – c’è da nuotare tanto e «not in the pool, but in the ocean», come dice Gilda. E perciò, fischiando, per piacere, nuotiamo.
Fabrizio Spagna