Made in Bangladesh, come le etichette che troviamo sui nostri vestiti: fin dalle prime immagini il film si concentra sulle dure condizioni di lavoro cui sono sottoposte le donne che li producono, in stanze sovraffollate e senza misure di sicurezza. La protagonista Shimu (Rikita Nandini Shimu), dopo la morte di una collega in un incendio nella fabbrica, si ribella a queste condizioni e inizia a collaborare con una giornalista per fondare un sindacato che tuteli le lavoratrici (tutte donne, perché per loro è previsto un salario inferiore rispetto agli uomini e perché ritenute più facilmente controllabili).
La pellicola è ambientata a Dacca, dove nel 2013 il crollo di un edificio di otto piani e la morte di oltre 1000 lavoratori avevano portato l’attenzione internazionale sul fast fashion e sulla realtà dietro ai prezzi competitivi proposti dai grandi marchi di abbigliamento; sulla tematica è stato prodotto due anni dopo il documentario The True Cost (Andrew Morgan, 2015), incentrato sull’impatto ambientale e sul costo umano di questa industria. Made in Bangladesh fa un passo ulteriore concentrando la propria attenzione anche sulla condizione della donna nella società bangladese: nonostante l’emancipazione ottenuta rispetto al passato, che oggi permette loro di lavorare e mantenersi autonomamente, queste donne sono infatti ancora fortemente sottomesse all’autorità maschile. La ribellione di Shimu (estesa al proprio matrimonio quando il marito rifiuta di supportarla nel suo progetto), la dimostrazione degli effetti positivi della solidarietà femminile e l’accento sull’importanza dell’istruzione nella lotta ai propri diritti fanno del film un grido di rivolta.
Attraverso un’efficace semplicità stilistica, la pellicola guida l’attenzione degli spettatori sulle lavoratrici e sulla loro lotta per il pagamento degli straordinari e per maggiori misure di sicurezza. Al suo terzo lungometraggio, realizzato grazie al supporto del Torino Film Lab, la regista Rubaiyat Hossain realizza un film di grande forza e speranza guidato da una protagonista che racchiude dentro di sé le numerose operaie nella sua condizione; un’opera importante, su cui riflettere con la speranza di una progressiva presa di coscienza sull’argomento.
Ottavia Isaia