Una fila ordinata di piccoli negozi appare sullo schermo, i manifesti pubblicitari scintillano sui muri e il vibrante technicolor anni Sessanta ci dà quasi un senso di pace. Sembra una tipica città americana del dopoguerra, tranquilla e geometrica, forse troppo. La voce narrante chiede “Che cosa stiamo guardando?” e desta in noi un dubbio: gli edifici sono finti come i pannelli di una scenografia, le strade sembrano non essere mai state calpestate, la vernice delle insegne è fresca e brillante. Si tratta di Riotsville, una delle finte città costruite dal governo americano negli anni Sessanta come basi di addestramento militare. In queste città, folle di militari in borghese mettevano in scena, con tanto di pubblico e applausi, vere e proprie rivolte affinché i loro colleghi potessero imparare a contenerle in vista delle proteste per i diritti civili che si sarebbero scatenate in estate.
Se la nostra memoria collettiva associa il 1968 a immagini rivoluzionarie e impressionanti, Riotsville, USA percorre una strada completamente diversa: ai filmati d’archivio degli addestramenti unisce quelli dei telegiornali dell’epoca. L’obiettivo della regista Sierra Pettengill, ricercatrice d’archivio, è quello di esplorare il modo in cui prende forma la coscienza nazionale statunitense, gli strumenti utilizzati dalle istituzioni per modellare il racconto mediatico e, di conseguenza, l’opinione pubblica. Le ripercussioni di questo racconto, evidenti tuttora, sono già riscontrabili nei filmati dell’epoca: le signore “bianche e perbene” imparano ad impugnare la pistola e si esercitano nel tiro a segno perché la televisione ha detto loro che le comunità nere sono rivoltose e pronte a tutto.
Questo tipo di narrazione condiziona anche l’addestramento dal punto di vista pratico: ai militari viene ordinato di trattare in maniera diversa i manifestanti bianchi rispetto ai “rivoltosi professionisti”, ovvero, i manifestanti neri. Siamo quindi testimoni dell’inizio di un processo che è ancora in corso: la progressiva militarizzazione del corpo di polizia che si ripercuote costantemente sulle comunità nere e su specifici quartieri, situati in città che, sin da allora, sono ancora virtualmente segregate. A questo processo ha contribuito anche la fotografia che, cogliendo l’istante, lo scoppio di una crisi, fallisce nel mostrarne invece le cause nella loro complessità. Sono le fotografie delle proteste, estrapolate dal proprio contesto, ad avere a lungo giustificato i modi in cui le comunità nere vengono represse dalla polizia. Non a caso, la fotografia è assente in Riotsville, USA e si tratta di un’assenza calcolata.
È frustrante assistere alle prove generali di un sistema di repressione ma, secondo la regista, può paradossalmente darci speranza: ci permette di realizzare che questo sistema è stato intenzionalmente costruito e, pertanto, può essere decostruito.
Alice Ferro