“NEXT SOHEE” DI JULY JUNG

Che la Corea del Sud abbia un crescente problema con il lavoro è risaputo – lo testimonia il recente tentativo da parte del governo di aumentare le ore settimanali di lavoro da 52 a 69. Eppure la ‘palma’ della nazione più workaholic, almeno agli occhi del mondo occidentale, spetta ormai da decenni ai giapponesi. È proprio questo vuoto rappresentativo – in minima parte affrontato dai k-dramas esportati in tutto il mondo – che July Jung cerca di colmare con il suo secondo lungometraggio Next Sohee, presentato durante la Semaine de la critique del 75esimo Festival di Cannes, e ora film d’apertura della quarta edizione dei Job Film Days. Un film che ne contiene due, i quali non si oppongono l’uno all’altro ma cooperano per raggiungere la radice del problema, evitando di fermarsi sbrigativamente al primo e più superficiale colpevole.

Protagonista – almeno parziale – è Sohee (Kim Si-Eun), studentessa liceale incastrata in un tirocinio scolastico in una piccola azienda di call center. Un ambiente che si rivelerà spietato e disumanizzante, un tritacarne che costringe la maggior parte dei giovani lavoratori a licenziarsi, o addirittura a togliersi la vita. È solo a questo punto che il detective Oh Yoo-jin (Bae Doona) prende le redini del racconto, cercando di rivelare la verità su questa avida azienda, e non solo.

Un enorme concorso di colpa. Una carrellata di persone – e soprattutto enti – responsabili di reiterare un meccanismo fallace che si regge su una logica speculativa così esacerbata da non fermarsi nemmeno di fronte alla morte. È questa la nuova frontiera dello sfruttamento: un’asfissiante ricerca di nuova forza lavoro, che erode il confine tra adolescenza e mondo adulto per non far crollare questo delicato equilibrio. Se dunque la scuola non è più capace di formare dei cittadini intraprendenti, allora questi potranno essere direttamente addestrati dalle (tantissime) aziende che non hanno bisogno di persone ma solo di numeri.

Un’opera votata totalmente al raggiungimento della sua missione, coincidente con quello della detective, ma che vede proprio nel personaggio interpretato da Bae Doona l’unico difetto significativo. L’attrice, una delle poche ad aver raggiunto una notorietà internazionale sin dall’inizio dell’exploit del cinema sudcoreano, emerge eccessivamente quale eroina del racconto, inficiandone almeno in parte il realismo, che si sarebbe meglio adattato a un’indagine metodica svolta da una ‘persona comune’, senza sovrinterpretazioni di stampo postmodernista che la star inevitabilmente rievoca – vedasi la sua prima apparizione in scena. Se questa scelta riduce in parte la brutalità della storia, non invalida però la bontà dell’operazione messa in atto dalla regista che, grazie alla sua puntigliosità e inflessibilità, riesce a ricostruire in maniera sfaccettata e non banale il sempre più complicato rapporto tra la Corea del Sud e il mondo del lavoro.

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