“IL MESTIERE DI VIVERE” DI GIOVANNA GAGLIARDO

Era il 26 agosto del 1950 quando un uomo passeggiava per le strade di Torino un’ultima volta. Un addio al mondo, forse un ultimo tenue grido di aiuto non accolto, infine la fatale scelta di abbandonare questa vita che non era mai stato in grado di vivere a pieno. Il mestiere di vivere inizia dalla fine, dall’ultimo giorno di Cesare Pavese, forse a voler mettere subito in scena (e quindi da parte) ciò che ha fin troppo oscurato la sua fama.

In un percorso circolare, conosceremo Pavese attraverso interviste, lettere, poesie, romanzi e perfino traduzioni, poiché egli fu anche un grande traduttore. Emerge così l’intenzione della regista, Giovanna Gagliardo, di mettere in luce lati inediti o dimenticati di questo complesso personaggio: dal senso di colpa per non aver combattuto in prima persona il regime al rapporto sfiorato ma mai pienamente raggiunto col cinema.

Attraverso filmati di repertorio e riprese che ne imitano lo stile, veniamo subito immersi nella Torino deserta di quel fatidico giorno: come in un viaggio nel tempo, ci sembra di passeggiare di fianco a Pavese, di sentire i suoi pensieri, di colmare un poco la solitudine esistenziale che lo affliggeva, e che affligge molti di noi. La regista usa gli spazi per mostrare visivamente ciò che è racchiuso nelle parole dello scrittore, enunciate in voice over, riuscendo così a creare un momento di grande emozione e intimità. Il passaggio tra passato e presente è reso evidente dal cambio di formato e dal passaggio dal bianco e nero al colore.

Nel presente ritroviamo i medesimi luoghi che hanno visto il passaggio dello scrittore, parlanti poiché “interrogati” dalla macchina da presa e dall’occhio dello spettatore. Utilizzando riprese d’archivio in bianco e nero, la regista decide di colorare di volta in volta un oggetto o un dettaglio del paesaggio, inserendo così una rottura cinematografica che sovrappone presente e passato, realtà e finzione.

Il mestiere di vivere è capace di incuriosire chi non conosce Pavese, ma soprattutto di regalare un nuovo Pavese anche ai suoi lettori, catturato nella sua umanità talvolta insostenibile, più attuale che mai e con un legame inaspettato col cinema. Rimane solo un interrogativo, per sempre senza risposta: forse il cinema avrebbe potuto salvarlo?

Francesca Strangis

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