“PARADIS PARIS” DI MARJANE SATRAPI

Nel reticolo metropolitano di Parigi, si aggira la più fedele compagna della vita umana: la morte. Diventata celebre con Persepolis, Marjane Satrapi – illustratrice e fumettista ancor prima che regista – assegna alla Grande Mietitrice il ruolo di assoluta protagonista del suo ultimo film. In tutte le sue forme e declinazioni, la vediamo sconvolgere le esistenze di diversi personaggi, cuciti in una vasta trama di cui pian piano emergono gli intrecci.

La morte dichiarata per errore di una cantante lirica narcisista (Monica Bellucci) sul viale del tramonto, che si sveglia dall’incubo di Edgar Allan Poe nella cella di un obitorio. La morte sfidata quotidianamente da uno stuntman professionista (Ben Aldridge). La morte ripresa con curiosità morbosa e ironica da un conduttore televisivo (André Dussollier). La morte contraccambiata in un patto amichevole con l’onnipotente da un’anziana (Rossy De Palma). La morte cercata, attraverso tentati suicidi, da un’adolescente che soffre di depressione (Charline Emane).

Come si può dedurre da questo rapido sguardo sulla comédie humaine del film, il rischio di dare vita a un pot-pourri saturo e disomogeneo è molto alto. Purtroppo Satrapi non riesce ad evitarlo e scimmiotta goffamente i grandi autori corali (Robert Altman, ma anche il Michael Haneke di Code inconnu, ambientato in una Parigi che si fa metonimia dell’Occidente), senza avere la loro abilità nell’orchestrare il gioco dei destini. Il risultato è una costellazione di stelle che non brillano, situazioni banali ed esangui che non partono da nessuna parte e non arrivano da nessuna parte.

Con la (troppa) leggerezza che le è congeniale, estremizza il discorso nei modi del paradosso e del grottesco annacquato, da cui sorge il grosso limite di fermarsi a metà strada. La piattezza registica restringe le aspirazioni universali a una piccola satira di costume, di aneddotica scontata e a tratti imparentata con facili simbolismi, come ad esempio la crocifissione, che sminuisce il grave autolesionismo della ragazza a vezzo egoistico in cerca di attenzioni.

Un ottimo cast di corpi attoriali conosciuti (su tutti Rossy De Palma, perfetta creatura almodovariana) non basta a tenere a galla la nave dei folli e ogni tentativo di mettere in discussione la società attuale è neutralizzato da un finale in cui tout va bien, melense apologia della capitale francese. In fin dei conti, il film è un po’ come la bara ultratecnologica esposta all’inizio: splendente e lucida, al suo interno contiene ogni vanitas, ma rimane vuota, perché il Cinema è assente.

Ludovico Franco

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