Schermo nero, vento. Poi, un vociare umano, commisto a nitriti. In un polveroso e spartano ippodromo, una corsa di cavalli viene interrotta al suo acme, con un ricorso ad un freeze-frame. A chi spetti la vittoria, non è dato saperlo.
Ecco che U slavu ljubavi (In Praise of Love) ri-comincia per la prima volta. Di nuovo nero, di nuovo rumori ambientali: a sovrastare ogni cosa sono cinguettii e muggiti. La presenza umana, stavolta, non è contemplata nemmeno sul piano sonoro. Dalla natura, incontaminata, si passa ai corpi animali. Lunghe inquadrature statiche, ipnotizzate da deretani equini. Lo sguardo di Drakulić non sembra porsi come un punto di stazione privilegiato rispetto ad altri, ma come uno dei tanti possibili. Il mondo viene lasciato fluire nella sua spontaneità, in ogni suo respiro. Non importa se i soggetti antropomorfici abbandonano il campo. Non è questione di décadrages, o di sovvertire una qualche regola grammaticale. Si tratta piuttosto di non riconoscersi in un’organizzazione gerarchica del materiale audiovisivo. Tutto è ugualmente meritevole di attenzione, e Drakulić è capace di restituirci l’indecidibilità di un punto di vista.
Drakulić descrive lo spazio liminale, il momento di trapasso e compenetrazione tra tame e wilderness. La piccola cittadina messicana a cui rivolge la sua attenzione, cinta dalle montagne della Sierra Madre, appartiene precisamente a questa dimensione. Sonoramente immersa in un bagno di versi animali, appare come una forma relitta della civiltà, innestata per capriccio su un terreno inadatto.
Beto (la cui voce narrante sovrasta ogni cosa) racconta storie ambigue. Tra il fattuale e il mitologico, tra l’esperito e il sentito raccontare, fino al delirio infantile. Streghe nate dal fuoco, miniere d’oro nascoste, serpenti come amici d’infanzia. Il suo è un impero vacillante, dai confini imprecisi. Sconfina nell’immaginario, incurante della propria veridicità.
Le filastrocche delle giovani abitanti del villaggio, così come i racconti di Beto, sono poco più che un rumore tra i rumori. Dal canto umano si passa a quello dei grilli, a quello magico delle civette.
Quella che Beto e -con e attraverso lui- Drakulić raccontano è la storia di una colonizzazione fallita, irrisolta. In cui la Terra ha preservato intatta la sua natura misterica, le sue segrete ricchezze. La sua forza non è violenta e prevaricatrice, ma piuttosto pervasiva, inglobante. Al villaggio si respira la stessa aria della Grecia arcaica.
Niccolò Buttigliero