L’irradiante spensieratezza della giovane età nella Francia degli anni ’40, flagellata dalle leggi antisemite. Une jeune fille qui va bien è il lungometraggio d’esordio di Sandrine Kiberlain, presentato a maggio durante La Semaine de la critique di Cannes e in concorso al TFF 39.
In un panorama cinematografico che annovera, anche in tempi recenti, numerosi adattamenti di questo particolare periodo storico, Kiberlain riesce a fornirne una versione interessante, allo stesso tempo originale e delicata. Siamo nel vivo della Seconda Guerra Mondiale, eppure quella che vediamo è una teenager story, con amori che finiscono e altri che iniziano, con sogni da realizzare e ostacoli che si frappongono tra l’intraprendente protagonista e il suo obiettivo. Il titolo internazionale del film è The Radiant Girl, e questa luminosità diventa diegeticamente importante fin dalla prima sequenza. La giovane Irene (la bravissima Rebecca Marder) ha un’energia contagiosa ed è davvero in grado di accendere la scena con la sua sola presenza. La fotografia di Guillaume Schiffman asseconda questa precisa scelta narrativa, perché i colori degli spazi chiusi in cui si muovono gli attori sono freddi, contrastati dai colori accessi della sua protagonista.
Un colore, in particolare, gioca un ruolo fondamentale a livello simbolico: il rosso. Irene ha sempre addosso qualcosa di rosso per almeno la prima ora del film, che sia una sciarpa, un vestito o un paio di scarpe. Il suo quaderno è rosso, come rossa è la sedia usata per provare la scena con il partner Jon, e pure la divisa del lavoro in teatro. Il rosso è il colore della salvezza, della libertà di questa ragazza che vive consapevole dello scenario politico ma comunque decisa a difendere la propria identità. E infatti, appena queste certezze vengono a mancare, il rosso scompare dalla scena: quando entrano in vigore le leggi razziali, il fazzoletto al collo diventa giallo, come la stella di David che finirà presto sulla sua giacca.
La regia di Kiberlain non riesce però a rimanere coerente per tutta la durata del film. I diversi messaggi di cui si fa carico la regista vengono portati avanti con equilibrio fino al finale, eccessivamente didascalico ed estraneo rispetto al resto della storia. Resta un esordio dietro la cinepresa interessante, in cui si notano anche tracce di Stéphane Brizé, autore con cui l’attrice francese ha collaborato più volte. Primi piani impetuosi e prolungati, scenografie minimali (potremmo essere in qualsiasi epoca storica) e intelligente uso del fuoricampo. E nonostante la presenza di un’archetipica Anna Frank, ispirazione dichiarata di Kiberlain, il film mantiene una sua identità e non scade in moralismi banali. L’arte e il teatro rendono liberi, pensa Irene. Sì, finché qualcuno non cala di forza il sipario.
Marco Ghironi