“PARLATE A BASSA VOCE” DI ESMERALDA CALABRIA

Albania, 1985. Dopo 40 anni di esercizio indiscriminato del potere, il dittatore Enver Hoxa muore, creando un vuoto tutt’ora incolmabile nella politica albanese. Sotto la sua guida, il Paese ha conosciuto alcune delle pagine più cupe della sua storia, e alla repressione ha fatto seguito una diaspora di dimensioni tutt’altro che modeste, che ha visto in molti casi come uno dei suoi punti di riferimento l’Italia. Redi Hasa, violoncellista professionista attivo da molti anni in Italia, è stato uno dei protagonisti di quella diaspora e, attraverso i suoi interventi, vengono analizzate le conseguenze di quei quarant’anni sul singolo individuo e sulla comunità.

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Ed è proprio lui che Esmeralda Calabria – montatrice, tra gli altri, di Nanni Moretti e Giuseppe Piccioni –, alla sua prima prova dietro la macchina da presa, utilizza come “cicerone” per il suo racconto, rifiutando la convenzione di tanto cinema del reale di avere un solo narratore e scegliendo invece di farlo conversare, davanti alla macchina da presa, con amici e parenti che hanno vissuto quello che lui ha vissuto.  Davanti all’obiettivo si procede dunque per aneddoti e considerazioni tra i convenuti, rendendo in questo modo la narrazione scorrevole e colloquiale, ed evitando qualsiasi didatticismo; si discorre di arte, di politica, di ideali e di identità rispetto a ciò che si è e ciò che si vuole diventare.

Ma prima di guardare avanti, sembra voler dire Calabria, bisogna necessariamente guardarsi indietro, e dunque tornare sul “luogo del delitto”, l’Albania, dove tra le vestigia ancora in piedi di quell’infame passato, le ferite sono ancora aperte, e ci si continua a domandare, anche quando non si è fatto nulla di male, se non si sarebbe potuto fare di più; il tutto mentre, come ricordano alcuni degli intervistati, nessuno dei veri responsabili si è mai scusato delle atrocità perpetrate. “Quello non era comunismo”, afferma una ex attrice teatrale intervistata, “era dittatura pura e semplice”. E proprio i filmati che vedono protagonisti i capi di quella dittatura diventano il materiale privilegiato per Calabria che, forte di una carriera trentennale nella post-produzione, riesce a farne un uso inedito, quasi espressionista: proiettandoli ora sulla parete di una caverna, ora su un muro di mattoni, la regista rievoca con efficacia quel clima di chiusura e terrore da cui Hasa (che, nato nel 1977, ha conosciuto meglio il periodo di instabilità successivo alla caduta del regime che non il regime stesso) si è divincolato, e come lui migliaia di altri.

Eppure, anche dopo essere approdato e aver fatto carriera in Italia, il senso di colpa rimane: colpa per essere scappato, colpa per non aver fatto abbastanza per il suo Paese in perenne crisi politica, colpa per aver lasciato i genitori; e persiste un sentimento di perenne apolidia. Solo il confronto diretto con la terra natìa forte di ciò che ha imparato al di là di quel muro, come avviene nel potente finale, potrà rimettere le cose in equilibrio.

Alessandro Pomati

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