La Kiev del 1968 rappresentata da Stanislav Gurenko e Andrii Alf’erov in Dissident non è una vitale sinfonia urbana come la Berlino avanguardista di Walter Ruttmann, ma un cinereo agglomerato di strade ed edifici costantemente colpiti da una pioggia violenta e incessante, spettro dell’Unione Sovietica che aleggia, oppressiva, sulle spalle del popolo ucraino. Nel flusso disarmonico di una città in movimento si intrecciano i sogni, le angosce e le illusioni di individui abbandonati a loro stessi, tormentati dalla solitudine e in perenne conflitto tra una pacifica lotta per l’indipendenza e un ardente desiderio di ribellione.
Una tensione lacerante che si rispecchia anche nel protagonista del film, Oleg, ex soldato dell’esercito ucraino appena rientrato in patria dopo anni di prigionia. Le difficoltà di riprendere le redini della sua nuova vita – con una moglie che vorrebbe una vita tranquilla e un amico scrittore dalle misteriose ambizioni – si scontrano con l’ambiguità di una pace soltanto apparente, scossa dalle rivolte dei movimenti studenteschi e dalle sanguinose repressioni.
Scandito da una narrazione frammentata e instabile come la stessa situazione politica del Paese, lo sguardo di Oleg si rivolge, disorientato, verso un futuro incerto. Il suo idealistico desiderio di immolarsi in nome della patria è un fuoco che arde interiormente, pronto a divampare, nutrendosi ogni giorno delle disillusioni che è costretto ad affrontare. Una malinconica scintilla che tenta di ridare vita a una libertà ormai soffocata, una flebile speranza ancora oggi tremendamente attuale.
Emidio Sciamanna