“LA CLESSIDRA” DI WOJCIECH JERZY HAS

Alla 25ª edizione del TOHorror, nella sezione “matter(s) of time”, non poteva mancare La clessidra, film apolide di Wojciech Jerzy Has che sfugge a ogni definizione. In un celebre saggio, Cvetan Todorov colloca il fantastico in uno spazio liminale tra lo strano e il meraviglioso. Sospeso nell’indecidibilità surrealista che sfuma la realtà nell’onirico, il film appartiene – e allo stesso tempo si sottrae – alla categoria del fantastico. Tra il grottesco di Fellini e la poesia di Parajanov, Has rilegge e tradisce le irrappresentabili opere di Bruno Schulz in una temporalità che, più che all’oltre-realtà, guarda all’oltretomba.

Dal finestrino (o schermo cinematografico?) di un treno in corsa nell’altroquando, si origina il film-sogno di un giovane diretto verso il sanatorio in cui giace il padre morente. Questa passeggiata metafisica e in parte edipica dichiara dalla prima inquadratura la sua estraneità a qualsiasi codice linguistico o estetico. Con il viaggio comincia una sfida ermeneutica sulla negazione di assiomi fondamentali: lo spazio-tempo, la memoria, la realtà, la Storia, l’individuo. La lettura a-cronologica del tempo abbandona qualsiasi coordinata e non è garantita da nessun dispositivo di misura: saltano così in aria Einstein, Bergson e con loro i modi del discorso, non solo filmico.

Il protagonista e lo spettatore attraversano continue stanze mentali prive di un centro, in un abisso che ritorna al passato ma sempre scorrendo in avanti, ripetendosi. Prima della convivenza degli opposti del postmodernismo ludico e de-formante, La clessidra dà forma alle esitazioni tipicamente moderniste – e mitteleuropee – tra l’estetica romantica della rovina e l’eccesso barocco del decoro, la nitidezza delle immagini e il sonno della ragione, la vita e la morte, l’illusione e l’esibizione dello sguardo (gli occhi sono ovunque, vitrei, dipinti, ciechi).

Queste interferenze dicotomiche sono sintetizzate negli automi, fantocci e fantasmi della decadenza della Storia che rimandano al perturbante, perché è impossibile stabilire la differenza tra animato e inanimato. Le lenti ottiche grandangolari contribuiscono poi a dilatare lo spazio e il tempo, mostrandoci la totale distorsione del visibile: non possiamo più delineare una qualche fenomenologia, ma soltanto farci travolgere dal flusso magmatico della memoria. Perché ricordare significa innanzitutto riattivare immagini distanti, un po’ come fa il cinema.

Ludovico Franco

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