Una donna distesa su un letto, immobile, apparentemente priva di vita; sopra di lei un uomo ansimante che abusa della sua intimità. Con questa immagine brutale si apre Hamburgo, secondo lungometraggio di Lino Escalera. Dopo l’esordio con No sé decir adiós (2017), il regista madrileno torna a esplorare i temi della dipendenza e della solitudine adottando forme e atmosfere del noir.
Germán (Jaime Lorente) è un autista al servizio di una rete criminale che traffica prostitute sulla Costa del Sol: un uomo che si muove nell’ombra, antieroe ai margini e complice di un sistema che finge di non vedere. L’incontro con Alina (Ioana Bugarin), una delle vittime, incrina la sua realtà. Sebbene Hamburgo richiami un’estetica thriller anni ’70, Escalera non utilizza il genere come citazione ma come dispositivo politico: gli uomini emergono come archetipi noir, mentre Alina proviene dal mondo reale, costruita a partire da testimonianze di sopravvissute alla tratta.
Questa frizione tra immaginario e verità documentaria genera la tensione emotiva che attraversa l’intero film, obbligando lo spettatore a guardare ciò che la società rimuove. Girato in Super 16mm, il film restituisce una Costa del Sol di neon e periferie degradate, e la fotografia di Juana Jiménez trasforma il buio in una materia densa che nasconde le verità più scomode. La regia adotta i codici del genere, ma Escalera rifiuta ogni retorica e forma di redenzione, concentrandosi su un istante di riconoscimento tra due sopravvissuti. Germán e Alina provengono da mondi lontani, entrambi disumanizzati da una realtà che li ha erosi dall’interno. Eppure condividono un unico desiderio: fuggire, raggiungere la “propria” Amburgo, un altrove possibile. In questo gesto minimo, nel tentativo di guardarsi davvero e concedersi uno spazio di umanità, il film trova la sua verità: riconoscere l’altro è già un atto politico.
Greta Maria Sorani
