“DIYA” DI ACHILLE RONAIMOU

La vita di Dane (Ferdinand Mbaïssané), autista per una ONG a N’Djamena, procede regolare finché un tragico incidente lo espone al peso della diya, il prezzo del sangue che la famiglia del bambino da lui investito pretende come risarcimento. Da questo momento, il film si trasforma in un viaggio introspettivo in cui responsabilità, colpa e redenzione si intrecciano trascinando lo spettatore in un thriller sincopato.

Con Diya, Achille Ronaimou ritrae la realtà del Ciad con l’attenzione tipica di un antropologo. Usi, rituali ed etnie emergono come ossatura viva del racconto senza mai sfociare in facili giudizi morali. Ciò è permesso soprattutto da una sceneggiatura misurata, lontana da una rozza spettacolarizzazione del dramma. La tensione non nasce da semplici esplosioni di violenza, ma dal cadenzato accumulo di fallimenti e umiliazioni che ingabbiano progressivamente i personaggi. Pur mantenendo per tutta la sua durata un tono realistico e verosimile, il film a tratti esagera nel tentativo di mantenere alta l’attenzione, finendo per introdurre un colpo di scena in parte forzato nel suo climax finale.

Teatro della tragedia sono le aride strade di una N’Djamena soffocante, allegoria del caotico isolamento e della vulnerabilità che ogni giorno gravano sui ciadiani. Ronaimou sfrutta con intelligenza la complessa mappatura culturale del Paese, trasformandola nella fotografia di una dialettica endemica tra modernità e tradizione che attraversa indistintamente chiunque lo abiti. Dane è un uomo lacerato tanto dalle proprie azioni quanto dalle leggi non scritte del suo popolo. In questo ruolo, Ferdinand Mbaïssané si esprime con grande tatto e profondità, rendendo tutte le sfumature del dolore senza mai risultare artificioso o caricaturale. Meno fortunato è invece Youssouf Djaoro, sacrificato da una scrittura più interessata a farne l’emblema di un’irreprensibile norma culturale che a ritrarlo davvero come un padre. Al contrario Moussaka Zakaria Ibet è ottimo nei panni di Oumaru: con perizia costruisce un antieroe emarginato e vinto, incarnazione tesa e credibile di una disperata criminalità di sussistenza.

Diya è un film capace di indagare nell’immobilismo dei mores, mostrando come un singolo errore possa spalancare un abisso in cui giustizia e delitto si confondono. Ronaimou non offre riscatto né condanna, ma osserva l’irriducibile complessità dell’umano, lasciando allo spettatore un’inquietudine difficile da scrollarsi di dosso.

Vittorio Barbieri

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