La morte incombe su piccolo villaggio sloveno, materializzandosi nella misteriosa figura di un uomo ricoperto di fiori e nastri colorati. A doverci fare i conti è una bambina che, incapace di comprendere l’ineluttabilità del destino e credendo che in punto di morte la nonna sia stata salvata da un canto udito in lontananza, decide di unirsi a un coro per mantenerla in vita.
La morte – dell’infanzia, di un matrimonio, di una nonna – domina in Ida Who Sang So Badly Even the Dead Rose Up and Joined Her in Song, primo lungometraggio di Ester Ivakič che mescola atmosfere magiche e situazioni del quotidiano, vecchie leggende e contesto sociale della Slovenia degli anni ’70, in un realismo magico che richiama la fase di transizione tra infanzia e adolescenza, tra ultimi sfoghi di fantasia e gravità della realtà che incombe minacciosa.
Ida si muove da sola in luoghi sperduti, ripresa attraverso campi lunghi che ne inghiottiscono l’esile figura. A dividerla dal mondo degli adulti (inclusi i suoi genitori in piena crisi matrimoniale) ci sono spesso vere e proprie barriere fisiche – una finestra, una tenda, una porta socchiusa – che permettono alla bambina (e così allo spettatore) una visione filtrata e frammentaria della realtà. Neanche la scuola è in grado di curare la sua solitudine ma, anzi, crea ulteriori fratture attraverso insegnanti crudeli, figure a tratti caricaturali ma funzionali alla prospettiva infantile della protagonista.
Ispirato da una raccolta di racconti brevi – da cui derivano varie sottotrame non organicamente intrecciate che finiscono per deviare dal vero centro emotivo della storia (la relazione con la nonna) – il film funziona come fiaba intima e onirica sull’accettazione della morte e sulla ricerca della propria voce che, seppur stonata, ha il diritto di cantare.
Francesca Strangis
Articolo pubblicato su “La Repubblica” di Torino online, novembre 2025
