Reduce del successo di critica e pubblico al Sundance, The Babadook, primo lungometraggio dell’esordiente Jennifer Kent, approda in concorso al Torino Film Festival. Pur seguendo con assoluto rigore gli schemi dell’horror a tematica fantasmi/possessione (il mostro, il bambino che gioca con la presenza soprannaturale, la madre inizialmente incredula), il film australiano si districa abilmente dal tranello della banalità proponendoci un punto di vista nuovo, decisamente più intimo rispetto alle numerose produzioni del genere.Il Babadook, versione australiana dell’uomo nero, tormenta le ignare vittime che leggono ad alta voce il libro Mr. Babadook, racconto magnificamente illustrato da Alex Juhasz, che sembra materializzarsi per magia nelle case dei malcapitati. L’effetto è istantaneo: “Una volta che lo hai invitato, non potrai più liberarti di lui”. Mettendo per un momento da parte il lato sovrannaturale del film, appare chiaro come il vero motore dell’azione sia legato al sapiente lavoro di una regia femminile attenta e sensibile alle dinamiche interne ai singoli personaggi: a spaventarci non è una creatura mostruosa ma la disperazione di una vedova costretta a dividere la sua vita con un figlio che considera la causa della morte del marito (l’incidente mortale è avvenuto durante la corsa in auto verso l’ospedale il giorno del parto).
Ci spaventa il rapporto di questa atipica famiglia con una società borghese che mai accetterà la condizione di una madre single che divide le sue giornate tra un figlio con serie problematiche relazionali, un lavoro insoddisfacente e una situazione economica ai limiti del dignitoso. Nonostante alcuni passaggi poco chiari e l’eccessivo spazio di manovra lasciato alla fantasia del pubblico, il film mantiene gli spettatori attenti. L’orrore è suggerito ma mai palesato; la fotografia ricorda i capolavori del genere.
Il Babadook è il cattivo che ognuno di noi si trascina dietro, è il sentimento che una madre non può permettersi di provare nei confronti di un figlio, è una perdita non elaborata, è l’eterno ripetersi del presente. Seppur con qualche scivolone nel finale (grida eccessive, corpi scaraventati contro i muri e spasmi stile Esorcista), il film si posiziona abilmente in quella zona franca a metà tra thriller psicologico e horror. Per la Kent il male, nella sua drammatica ciclicità, può essere addomesticato, diventare parte delle nostre vite e, perché no, essere anche trasmesso in eredità al momento giusto.