In Mongolia esiste una tradizione plurisecolare, tramandata di padre in figlio, che consiste nel prendersi cura dei cavalli compiendo una transumanza per farli sopravvivere ai gelidi e rigidissimi inverni che caratterizzano il territorio. Sei anni fa questa tradizione si è improvvisamente interrotta a causa del clima invernale, sempre più duro di anno in anno. Dunque ora gli anziani dovranno far rivivere l’antica usanza affidando l’arduo compito a due giovani amici.
Una missione apparentemente semplice ma che in realtà necessita di una preparazione tecnica e psicofisica che non tutti possono raggiungere, e che il regista Kasimir Burgess mostra dalle prime sequenze nel suo ultimo documentario Iron Winter, presentato in concorso al 43° Torino Film Festival. I due ragazzi, Batbold e Tsagana, devono condurre una mandria di mille cavalli e intraprendere un viaggio di cinque mesi partendo dalla valle Tsakhir, affrontando sterminate praterie montane e tempeste di neve sempre più violente.
Colpisce fin da subito la fotografia, pulita e tendente al realismo visivo delle immagini, che impreziosisce le inquadrature panoramiche e le riprese dall’alto effettuate mediante drone. Il regista si concentra amabilmente sui dettagli che scandiscono la vita quotidiana dei mandriani, dalla cura dell’attrezzatura al macello delle pecore per preparare i pasti, fino all’allestimento della ger (tradizionale abitazione circolare e trasportabile dei nomadi mongoli). Dovendo sopportare frequenti periodi di attesa e inattività, i due amici ingannano il tempo misurandosi in sfide come una sorta di lotta greco-romana o raccogliendo al volo oggetti da terra (lazi, corde e bastoni) mentre cavalcano al galoppo – in vista di giochi che presso i loro popoli si tengono in occasione del capodanno.
Prescindendo dalla categoria documentaria, la pellicola risulta molto “spettacolarizzata”, come se dietro a ogni dialogo e situazione ci fosse un canovaccio da rispettare, proprio nello stesso modo in cui Robert J. Flaherty arrangia Nanuk l’esquimese (Nanuk of the North, 1922) al fine di adattare cinematograficamente la vita selvaggia e brutale di quei popoli per meglio farla apprezzare a un pubblico occidentale e più globalizzato, abituato a provare empatia e a immedesimarsi nella narrazione attraverso filtri e adattamenti opportunamente predisposti dalla scrittura e dalla regia.
A metà del film Tsagana dice a Batbold: «La felicità di un uomo sta nella natura selvaggia». Solo alla fine, quando Batbold si trasferisce in città alla ricerca di un impiego, l’affermazione dell’amico assume pienamente senso: un’intimistica e profonda dicotomia tra il mondo industrializzato delle metropoli, che ingloba i suoi abitanti fra gabbie invisibili e orari frenetici, e una vita dedicata al sentimento di un dovere morale che va ben oltre la descrizione pittorica di una mera esistenza, a stretto contatto con gli animali e immersa in una natura sconfinata e selvaggia.
Davide Lassandro
