“Hush bye bye, don’t you cry, go to sleepy little baby, when you wake you shall have all the pretty little horses…” Harper ha solo quattordici anni. Canta la ninnananna la sera, e la mattina accudisce quattro fratelli: Elias, il ribelle di 12 anni, Arri (8 anni), Ezra (5 anni) e Jonah di 2 anni. Essere la sorella maggiore non è una punizione ma lo diventa se mamma è altrove, persa in un periglioso conflitto con la propria autostima.
Tra cinéma verité e riproposizione cinematografica di fotografie di Tierney Gearon, God Bless the Child è il secondo lungometraggio di Robert Machoian e Rodrigo Ojda-Beck. Proiettato in anteprima al SXSW Festival del 2015, il lungometraggio è la risposta americana a Nobody Knows di Hirokazu Koreeda. Se nel film del regista giapponese la madre è un’escort, nel lavoro di Machoian e Ojda-Beck è una donna depressa, un fantasma che lascia all’alba i figli in balia di se stessi e ritorna a casa di notte, furtivamente, mentre dormono tutti tranne Harper, matura senza volerlo. “Scusa” è l’unica battuta che le spetta, nemmeno un primo piano o una ripresa che mostri il suo volto.
Il film annega in una coltre di mestizia. Molte sono le scene corali, immerse in delicate e candide canzoncine per bambini. Epica è la lotta tra fratelli nel cortile di casa, indossando guantoni che ripropongono le mani di Hulk. Il gioco si mescola al dolore e il dolore sfocia nel pianto dello sconfitto. God Bless the Child è un ritratto vivido e realistico dell’infanzia. E per una volta non sono i bambini ad inseguire il film ma è il film stesso a soccombere alla loro sincera interpretazione. E quando il sole cala e tutti sono a dormire, la porta si apre e lei ritorna. A letto con i quattro figli, in un sudario che avvolge gli animi solitari ed Harper lì, a fissarla pietosamente… in una vita sempre più difficile: “Hush bye bye, don’t you cry, go to sleepy little baby, when you wake you shall have all the pretty little horses.”