Los Angeles, 2019. In una città caotica, sovrappopolata, inquinata e sferzata da una perenne pioggia battente, si snodano le vicende di Rick Deckard (un Harrison Ford post Indiana Jones), cacciatore d’androidi, che ha la missione di “pensionare” un gruppo di replicanti ribelli guidati dal misterioso e carismatico Roy Batty (Rutger Hauer, olandese al suo primo film americano – da ricordare che fu considerato per il ruolo anche David Bowie). Ma la conoscenza di Rachel (la bellissima Sean Young), replicante ma dai sentimenti umani, sconvolge la missione del cacciatore fino all’epico e ambiguo finale. La sceneggiatura si ispira al racconto Do Androids Dream of Electric Sheep? Di Philip K. Dick.
Tanto si è detto, tanto si è scritto su questo film. Uscito nel 1982, all’epoca perse la battaglia al botteghino con l’ottimistico E.T, in un periodo in cui il mondo occidentale scopriva il lato edonistico che avrebbe poi caratterizzato tutti gli anni ’80. Un film come Blade Runner era considerato troppo cupo, disperato, filosofico per un pubblico che che voleva soprattutto evasione. Negli anni fu rivalutato e ora è il cult che tutti conosciamo e amiamo.
Ridley Scott ha creato un’opera che ha cambiato il modo di vedere il Cinema, non solo quello fantascientifico. Noir futuristico e post-moderno, nell’estetica e nella visionarietà ha anticipato molte architetture delle metropoli d’oggi e a livello registico ha dato il via a tutto il filone distopico dei decenni a seguire (il nipponico Akira prende spunto da qui). Le musiche di Vangelis entrano non solo nella mente ma anche nell’anima. Ma parlare solo delle qualità formali del film sarebbe riduttivo, visto che esso scava in profondità nell’animo dell’uomo (o del replicante?) e pone questioni universali come la vita e la morte, l’amore e la disillusione, la fragile ambiguità della vita di tutti noi.
In una straordinaria sequenza Roy Batty incontra il suo creatore, Tyrell, suo “padre”, e gli chiede di poter vivere più dei soli 4 anni che sono concessi ad un replicante. La brevità della vita e la frustrazione di non poter fare nulla di fronte all’inevitabile Fine portano Batty ha uccidere il “padre” in un impeto d’ira (pessimismo shopenauriano, metafore cristologiche e miti classici trasudano da ogni fotogramma di questa pellicola) e a fuggire verso il suo destino in quello che sarà uno dei più bei finali nella storia del cinema, con l’inseguimento di Deckard sotto la pioggia battente (metafora meravigliosa dei mali dell’Uomo che ci cadono addosso sotto forma di un acido e incessante diluvio) e il celebre monologo “I’ve seen things…”.
il finale è un commiato dall’Esistenza, una presa di coscienza malinconica del fatto che tutto ha una fine e soprattutto che non dobbiamo aver rimpianti per ciò che abbiamo vissuto (infatti il sole torna dopo la morte di Batty). Abbiamo già varcato le porte di Tannhauser e i bastioni di Orione ci sono più vicini di quanto immaginiamo. Il Futuro immaginato da Ridley (dominato dalle multinazionali, invivibile, paranoico) è già arrivato e forse è già divenuto Passato e noi con lui.
Capolavoro da vedere, rivedere, venerare. Di una bellezza e profondità che tolgono il fiato.
We’ve seen things you people couldn’t believe.