“Sopox è la formula del gas nervino. Ecco a cosa gli serviva un cromatografo. ‘Sto pazzo si è messo a sintetizzare del gas nervino!” esclama Pietro Zinni nelle ultime scene di Masterclass, secondo capitolo della trilogia.
Con Ad honorem si chiude la saga diretta e scritta dal giovane regista campano Sydney Sibilia che con questo terzo, esplosivo capitolo ci mostra le ultime fatiche della banda dei professori capitanata da Edoardo Leo, che interpreta un ex ricercatore di neurobiologia dell’Università “La Sapienza” di Roma.
Pietro, carcerato prima a Regina Coeli, poi a Rebibbia viene a scoprire di un imminente attentato ai professori e dirigenti della sua ormai ex Università per mano del criminale Walter Mercurio (Luigi Lo Cascio) che vuole vendicarsi di coloro che ritiene essere i responsabili della morte della sua amata. Il professor Zinni rimetterà in piedi la sua squadra e, insieme all’inaspettato aiuto del suo più acerrimo nemico, “Er Murena” (Neri Marcorè), evaderà dalla prigione per sventare il micidiale atto terroristico.
Sibilia continua, imperterrito, ad alzare il tiro e riprende un filone molto americano come quello del prison movie per adattarlo in formato “bel paese”: Fort Knox si trasforma in Rebibbia, la notte della fuga diventa la serata dello spettacolo d’opera della prigione e, con un po’ di immaginazione, Edoardo Leo sostituisce Steve McQueen.
Morale della favola? Rinnovamento. Nel ridefinire cosa può o non può comparire su uno schermo nostrano così come, spostandoci nell’universo del film, nel ringiovanire finalmente le classi dei quasi centenari che governano le istituzioni, il nemico che Mercurio identifica come “Loro”.
È questo l’obiettivo del villain interpretato da Luigi Lo Cascio, solitamente alle prese con tormentati personaggi del cinema d’autore ma che invece sceglie, questa volta, il ruolo del supercattivo da cinecomic: già in una delle sue prime prove attoriali, La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana, in sede d’esame veniva dato al suo personaggio il consiglio di distruggere i dinosauri che governano il nostro paese. Con un collegamento metacinematografico tanto curioso quanto affascinante, questo consiglio sembra arrivare a Walter Mercurio che sceglie il gas nervino per attuare la sua rivoluzione: distruggere ogni cosa e poter finalmente ricostruire.
Questo terzo film, girato in contemporanea con Masterclass (uscito nello sale appena nove mesi fa), è di fatto l’atto conclusivo di una saga che dal 2014 ha dato inizio a una rivoluzione silenziosa nel panorama cinematografico italiano, come ricorda il produttore Matteo Rovere in conferenza stampa:
“Smetto quando voglio è il stato il primo film che ha un po’ aperto la strada […] una commedia con un registro molto originale in sede di sceneggiatura ma anche con proposte di messa in scena un po’ particolari come quella della rapina […]. Ci sembra interessante raccogliere la sfida del pubblico, cercare di proporre prodotti molto sinceri ma che nello stesso tempo ci ricordino che siamo stati anche un’industria capace di fare cose diverse, un cinema di genere, eterogeneo che incontrava i gusti del pubblico”.
Una serie di prodotti come le pellicole di Sibilia o i pluripremiati Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti e Veloce come il vento dello stesso Rovere che hanno fatto incetta di statuette agli ultimi David, dimostrano che oggi l’Italia non sia solo il paese della commedia romantica o del dramma borghese. Dimostrano che c’è anche un’altra strada, ovvero che un cinema di genere di qualità è possibile. Un cinema di intrattenimento meravigliosamente commerciale, dal gusto pop e capace di entrare in un immaginario collettivo come succedeva nei decenni passati.
Questo cambiamento è finalmente in atto: non ci resta che sperare nelle idee di questi giovani, talentuosi cineasti.