“Accettare il proprio ruolo nella vita o ribellarsi?” È questa la domanda retorica che viene posta ad Angelo, protagonista dell’omonimo film di Markus Schleinzer in concorso a Torino36.
Ma qual è il suo ruolo? Angelo è stato strappato alla sua famiglia e alla sua terra per essere venduto come schiavo in Europa. Forse meno sfortunato di altri (ma è poi davvero così?), Angelo è stato accolto da una contessa per diventare una sorta di esperimento educativo vivente. Sono gli albori del XVIII secolo e l’atteggiamento che in seguito sarà definito fardello dell’uomo bianco è già ampiamente diffuso. Ed ecco quindi che l’uomo bianco e salvatore fa propria la missione di portare la civilizzazione a popolazioni barbare e indigene, a quegli “uomini nati schiavi, senza voglia di lavorare e senza Dio.” Angelo crescerà educato all’arte, alla musica, alla religione cristiana; vivrà una vita agiata, ma non sarà mai accettato come pari. Avrà un importante ruolo alla corte viennese ma per tutta la vita sarà costretto a subire il razzismo, più o meno latente, di coloro con cui si confronterà.
“Figlio dell’Africa, ma uomo d’Europa”, Angelo Soliman rappresenta un ponte tra due culture, ma si tratta di un ponte non voluto e non cercato, bensì impostogli. Impostogli anche nella morte, quando il suo corpo fu voluto dal Museo Imperiale di Storia Naturale per essere reso un’attrazione nei panni di un “selvaggio” africano.
Una storia vera e terribile quella di Angelo Soliman che il regista Markus Schleinzer ha deciso di portare sullo schermo dopo aver visitato una mostra: così ha raccontato in conferenza stampa l’attrice Gerti Drassl, che interpreta la bambinaia di Angelo. In un periodo storico come il nostro, Schleinzer ha pensato – a ragione – che la storia di Angelo fosse più che mai attuale.
Tutto ciò che Angelo vorrebbe è essere libero, o per lo meno, di vivere a modo suo una vita che gli è stata imposta, ma non lo sarà mai davvero. E il richiamo alla gabbia dorata che lo circonda è un richiamo anche visivo, enfatizzato dal formato in 4:3. Gerti Drassl ha confermato che l’intento di Schleinzer era proprio quello di riportare anche visivamente la condizione di reclusione tanto di Angelo quanto dell’Imperatore, il quale gli permette di far parte della corte in cambio dei suoi servigi come intrattenitore: entrambi vivono una vita che non hanno scelto.
Se gli intenti di partenza sono nobili, Schleinzer però adotta uno stile artificioso e manierista che appesantisce il film. La rigidità dell’ambiente in cui cresce Angelo è ben trasposta sullo schermo da un’austerità che nella prima parte del film ricorda la pittura fiamminga, ma l’opera ne risente. Non bastano nemmeno la vivacità e i colori della corte viennese a risollevare il tessuto di un film che non scorre e si inceppa nelle pieghe di un racconto frammentario e poco chiaro.
In Angelo non vi è mai emozione, non vi è mai immedesimazione. Anziché attrarre lo spettatore, il film è un continuo gioco di straniamento che lo respinge, prima con i suoi silenzi e poi con i suoi dialoghi altisonanti.