“Un film scritto da un giornalista e un attivista politico insieme al figlio del regista di Ghostbusters”. Con queste parole Jason Reitman apre la conferenza stampa del TFF36, di cui The Front Runner è il film d’apertura, facendo riferimento a Matt Bai, autore di All the Truth Is Out, romanzo cui il film si ispira, e Jay Carson, produttore e consulente per House of Cards. Reitman rivela poi che i primi fotogrammi della pellicola sono un omaggio al padre, il logo vintage della Columbia da Stripes (Ivan Reitman, USA, 1981), ovvero il film che ha accompagnato l’infanzia del regista.
The Front Runner è incentrato sulla figura del senatore democratico Gary Hart e sulla vicenda della “Blond girl on the boat” che gli costò la candidatura alle presidenziali del 1988, ma non solo. Sin dagli istanti iniziali si è indotti a individuare nella stampa la co-protagonista della storia: un articolato e prolungato piano-sequenza immerge lo spettatore in un contesto dispersivo e caotico, un continuo via vai di paparazzi, addetti stampa, tecnici e giornalisti i cui reciproci insulti si sovrappongono. Sembra quindi essere quello dei tabloid il punto di vista adottato dall’autore per lo svolgimento dell’intreccio, ma con lo scorrere del film la vicenda viene gradualmente illuminata da una luce diversa.
Lo spettatore è chiamato a partecipare attivamente, a definire in autonomia la miglior prospettiva da cui osservare, a individuare il personaggio da difendere e/o da attaccare. Compito dall’esito tutt’altro che scontato, vista l’importanza del cast, in termini quantitativi e qualitativi. Ovviamente tutti i riflettori (o meglio, i flash) sono rivolti verso il carismatico quanto convincente Hugh Jackman, che si mostra all’altezza della situazione con un’interpretazione minuziosamente preparata e perfettamente controllata, conferendo carisma e umanità a Hart, come uomo, come politico, piuttosto che come womanizer. Con la stessa umanità Sara Paxton interpreta Donna Rice: quando per la prima volta è ripresa in primo piano, dopo essere stata inquadrata di spalle o senza la messa in quadro del viso (nella sequenza sullo yacht Monkey Business), non vediamo la spietata seduttrice descritta dai media, ma una donna in lacrime, bellissima, certo, ma ferita nell’orgoglio, umiliata davanti al mondo intero e completamente indifesa, costretta a veder il proprio promettente futuro sfumarle davanti; emblematica la scena sulle scale mobili, dove viene lentamente inghiottita da un vortice di fotoreporter e telecamere. Ultimo vertice del triangolo amoroso è la moglie Lee Hart che, grazie a un’impeccabile Vera Farmiga, al ritorno sul set di Reitman dopo Up in the Air (J. Reitman, USA, 2009), acquisisce grande spessore e dignità: rinchiusa in casa, con l’America che si intromette nella vita della sua famiglia, la mancata First Lady suona malinconicamente il piano e si prende cura della figlia adolescente, per poi fiancheggiare il marito nel momento più difficile della sua carriera.
Non delude le attese neanche J.K. Simmons, al suo sesto film con il regista: con il suo irresistibile sarcasmo veste perfettamente i panni di Bill Dixon, direttore della campagna elettorale. Nota di merito per Molly Ephraim e Mamodou Athie, che insieme assumono la funzione di veicolare alcuni degli interrogativi di Reitman allo spettatore, quelle domande che devono riecheggiare nella mente di quest’ultimo dopo aver lasciato la sala: entro quali limiti è giusto che l’accrescimento del potere di un uomo corrisponda alla violazione della riservatezza? A quali parametri riferirsi per giudicare le sue azioni?