La fine del secolo che dà il titolo all’opera prima di Lucio Castro è una cesura sospesa, e la sospensione è elemento cardine di una storia semplice, capace di insinuarsi con delicatezza ed essenzialità nell’incontro di due anime che sembrano conoscersi da sempre e riscoprirsi ogni volta da capo.
È una calda e silenziosa estate spagnola, Ocho (Juan Barberini) è in vacanza a Barcellona: esplora, fotografa, torna nel suo appartamento. Affacciato al balcone vede Javi (Ramon Pujol), lo invita a salire e tra i due scoppia subito la passione. Un erotismo fugace, inconsistente e senza pretese. O almeno parrebbe. Perché Castro rimette tutto in gioco fin da subito, riavvolgendo il tempo e trasformando un romanticismo sfuggente in una storia d’amore universale, slegata da qualsiasi aggancio spazio-temporale.
La vicenda si snoda su tre linee narrative, corrispettive di un passato, presente e futuro che si rivelano quanto mai incerti. «Mi sembra di averti già conosciuto» dice Ocho a Javi poco prima che la cronologia dei fatti ci sveli che i due, in effetti, si erano già presentati vent’anni prima, e consumato un rapporto occasionale del tutto simile. Qualche elemento diegetico lega sottilmente i salti temporali: una maglietta, le attese sentimentali e i sogni di giovinezza che scopriamo già svaniti nel momento in cui impariamo a conoscerli. Accanto al passato del loro primo incontro si introduce l’idea di un futuro insieme, di una famiglia che vive e arranca tra gli alti e i bassi di una vita coniugale. Per poi chiudere con la suggestione onirica di un nuovo inizio, un giro di giostra che riparte da quello stesso balcone da cui tutto ha avuto inizio.
La verità della relazione tra Ocho e Javi si rivela quindi inafferrabile, sospesa tra la concretezza dei loro momenti insieme e l’enigmaticità di un posizionamento nel tempo e nello spazio che ci impedisce di orientarci con esattezza. Come se a contare davvero, nel rapporto umano tra due persone, fosse un unico ed eterno presente. E allora il film lavora sulla memoria, sottraendola da un oggettività contingente per immergerla nell’immediato sentimentale di due giovani ragazzi che si amano, ogni volta, per quel che sono, indipendenti da un background che si fa sempre più sfumato.
Castro lavora in parallelo a livello stilistico, compensando l’astrattezza contenutistica con quella formale. Procedendo per sottrazione, dalla messa in scena alla direzione degli interpreti, le scelte di regia finiscono per isolare ripetutamente le figure dei protagonisti, mostrandoli spesso come gli unici elementi a fuoco su un fondale cittadino indefinito. Altrettanto riuscita, in questo senso, è la scelta di non diversificare gli attori nelle tre fasce temporali, sfidando lo spettatore a comprenderne da solo i cambiamenti e le variazioni.
Fin de siglo universalizza. Disarticola l’esperienza di Ocho e Javi in una percezione di sé e dell’altro che diventa tutta mentale, sfiorando l’essenza più intima del coinvolgimento umano e trasformandola in ricordo vivo di un un percorso soggettivo che è passato, presente e futuro.
Giulia Leo