Opera prima in concorso al TFF37, Ohong Village è il racconto minuto di un nucleo famigliare taiwanese. Minuto nello svolgimento, composto nella tecnica, frettoloso nell’assemblaggio di storia e immagini, Ohong Village fa più bella figura come documentario che come film a soggetto. Storia di un ritorno a casa di un giovane taiwanese, cervello in fuga, accolto nella sua immobile Taiwan dalla famiglia e dall’amico di sempre. Storia di menzogne, di simboli (fiacchi), e di suoni di incredibile potenza espressiva.
Se è percepibile la sensibilità schiettamente autobiografica del giovane regista, la storia del rapporto sfaldato tra Sheng-Ji, il protagonista (Yu-Hsu Lin) e suo padre (Jieh-Wen King) manca però di propulsione narrativa e di approfondimento tematico. Ché la vicenda prenda spunto dalla vita dello stesso regista pare chiaro a tutti: espatriato per imparare a far cinema nell’europeissima Praga, Lungyin Lim satura (letteralmente) le sue immagini dell’ansia da separazione dal suo mondo originario, della nostalgia per una strada, quella di casa, non più praticabile. Membro della classe disagiata, ovvero della folta schiera di giovani «allevata nella convinzione di poter migliorare la propria posizione nella piramide sociale» – come scrive Raffaele Alberto Ventura, autore della Teoria che questa classe descrive – Lim dice per interposta persona che all’estero si fatica e si piange come nel letto di casa. Quando Sheng-Ji torna a casa racconta alla famiglia che all’estero guadagna milioni, che, parole sue, vive «a damn good life» (sic): insomma si riempie la bocca di menzogne per evitare la figuraccia di un ritorno a casa per bancarotta esistenziale. Suo padre è l’unico a non cascarci, e da qui il degenerare forzato della trama. Sullo sfondo i preparativi per il carnevale tradizionale con i suoi bei colori e i suoi oracoli ridondanti.
Grande sensibilità dunque nel mettere in scena l’immobilità rassegnata di un villaggio in cui la quotidianità e non la Storia significa qualcosa: ché è nella routine tra l’allevamento di ostriche di proprietà famigliare e la cena insieme a casa che si scopre l’intima poesia di un mondo indifferente allo scorrere del tempo. Qui però sta il gran problema del film: l’unico approfondimento è in questi frammenti documentari sul lavorìo di una famiglia di Taiwan. Tutti i potenziali moti narrativi del film vengono frenati, noi crediamo, dall’immaturità di un regista che non sa ancora controllare la materia che vuole rivelare. Personaggi, oggetti, sottotrame: tutto rimane involuto, abbandonato nel momento stesso in cui è mostrato. «Forse lì dietro c’è qualcosa», dicono un paio di volte i due amici durante il film, e dietro non c’è nulla. E così nell’opera: oltre alla presentazione puntuale di scene di vita di un villaggio orgoglioso e sconsolato non c’è molto altro. I dialoghi, gli attori e le linee narrative accennano a una profondità che la trama non sa articolare – cosa fa Sheng in Cina? Come vive? E quanta superficie nella storia d’amicizia!
Girato in un bel 16mm ( «a Praga ho imparato a lavorare così», spiega il regista in conferenza stampa) che restituisce il senso di immobilità del tempo e delle immutabili tradizioni, Ohong Village ha molti problemi e qualche evidente qualità: su tutte le musiche (di Vojtech Zavadil) che animano l’altra buona dote del film, quei campi lunghi che muovono dal mare verso un’umanità rassegnata alla propria inerzia.
Rimandiamo a L’albero dei frutti selvatici di Nuri Bilge Ceylan per ritrovare gli stessi temi, ma affrontati con una grazia e uno spessore che Ohong Village purtroppo non è riuscito a rivelare.