“THE FAREWELL – UNA BUGIA BUONA” DI lULU wANG

“La verità fa male per poco, ma una bugia fa male per sempre”, recita un detto popolare divenuto ormai una regola non scritta, un teorema che possiamo universalmente prendere per buono.

Eppure, nella Cina del ventunesimo secolo, questo teorema viene completamente ribaltato: la verità fa male per sempre, mentre una bugia fa male per poco. Quel tanto che basta perché la bonaria matriarca di una famiglia di emigrati muoia di un tumore.

Così inizia la storia di Billi, trentenne, nata e cresciuta in America con sporadiche visite in Cina per andare a trovare la nonna paterna, Nai Nai, con la quale la ragazza intrattiene un rapporto continuativo e affettuoso fatto di chiacchierate e confidenze telefoniche. Non sta combinando molto, Billi, nella vita: ha aspirazioni artistiche che non trovano forma concreta; vive di lavoretti part-time; si fa mantenere dai genitori, con i quali ha invece un legame tutt’altro che sereno, soprattutto con la madre.

Alla notizia della malattia di Nai Nai, la ragazza è sconvolta. Ma a sconvolgerla ancora di più è il fatto che nessuno, all’interno della cerchia famigliare, sembra intenzionato a rivelare alla donna la verità sulla sua condizione, a partire dalla prozia che si occupa di lei, fino al più piccolo dei nipoti. Il pretesto per andarla a trovare e starle accanto durante i suoi ultimi giorni è quello di un matrimonio organizzato in fretta e furia tra un cugino primo di Billi e una ragazza giapponese. Il ritorno in Cina di Billi e della sua famiglia riaccenderà antichi contrasti con il ramo “autoctono” del clan.

“Ricorda che non è il cosa fai”, dice Nai Nai a Billi, “ma il come lo fai che conta”. E’ in questa perla di saggezza a risiedere il senso ultimo del film scritto e diretto dall’esordiente Lulu Wang: non ha tanto valore dire a una donna anziana che sta morendo, quanto il sostenere che tutto vada bene per proteggerla dal dolore; non ha tanto valore ammettere che in famiglia serpeggino rancori e recriminazioni mai sopiti, quanto fare un sorriso e posare tutti insieme nelle foto di gruppo. Una perfetta metafora della Cina contemporanea: geometricamente perfetta nelle sue architetture moderne (a cui la regista dedica non poche inquadrature), ma ancora prigioniera di una mentalità e di una società all’antica, schiava delle apparenze e dei pregiudizi.

Tutto ciò Wang ce lo racconta con levità attraverso gli occhi di Billi (Awkwafina, la popolare rapper di recente prestata al cinema), disincantata e ironica occidentale dagli occhi a mandorla. Il film assume così un tono fresco, di intrattenimento intelligente, che mostra come, anche nella menzogna e nella difficoltà, una famiglia riesca comunque a compattarsi, con risultati tragicomici determinati dalla “spada di Damocle” rappresentata dal destino ormai scritto della matriarca. Del quale la donna non pare, alla fine, del tutto ignara.

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