Nulla si crea, nulla si distrugge. Tutto si trasforma: le persone, gli ideali, le città. Il modo di concepire il peso della singola persona all’interno di una comunità, sempre più sospesa sul filo dell’ambiguità tra interessi, cause sociali e necessità di sopravvivere. Eduardo Gomez si muove liberamente lungo il ponte che collega l’anima rurale del Sudamerica e la sua sublimazione industriale: pietre, che forgiano l’asfalto e segnano la via per un nuovo mondo. Non per forza migliore.
Il primo documentario del regista colombiano è frutto di una co-produzione tra Argentina e Bolivia, due paesi simbolo di un discorso che interessa gran parte della cultura occidentale. La partecipazione in concorso ai Job Film Days 2021 di Torino apre uno spunto di riflessione aggiuntivo alla costruzione narrativa adottata da Gomez: il conflitto tra paleontologi e lavoratori delle cave. I primi, intenti a proteggere il materiale storico delle grandi riserve rocciose, siti millenari di fossili paleolitici ancora sommersi dai detriti del tempo; i secondi, al contrario, impegnati a proteggere il loro lavoro senza porsi dilemmi morali, consapevoli di averne bisogno per sopravvivere e sbarcare il lunario.
La conquista de las ruinas non è un film di luoghi, ma di persone. Il nuovo millennio non ha migliorato le condizioni di vita dei minatori, ha solo aumentato la forbice sociale, l’oppressione, il mancato riconoscimento dei propri sforzi e le morti sul lavoro. L’unica possibilità per sopravvivere è tenersi stretto il poco che si ha, andando a contrapporsi a un’altre categoria di lavoratori altrettanto bistrattata. I paleontologi, infatti, si muovono tra la reticenza degli operai e l’indifferenza della società che paga per le scoperte archeologiche soltanto per vendere i biglietti per i parchi di esposizione. La macchina industriale non ha fame di scoperte e fagocita, indifferentemente, tutto ciò che si trova dinnanzi.
Dal punto di vista formale, l’andamento quasi onirico del film concede alla narrazione un ritmo compassato e ragionato, poetico quando la camera indugia sui meravigliosi monti di Punta Querandi o sulle steppe desertiche de La Buitrera. La particolare scelta del bianco e nero acuisce il contrasto tra passato e presente, tra natura e città. La Buenos Aires che appare in reminiscenze quasi astratte è direttamente figlia delle esplosioni provocate dai minatori per raccogliere quelli che saranno i mattoni delle metropoli. La cura della fotografia, firmata sempre da Gomez e vero punto di forza della pellicola, emerge nella caduta massi forzata dalla mano dell’uomo, nella coltre di polvere che l’assenza di colore rende minacciosa quanto lo smog della città. Un’allegoria tetra e fredda come la pietra alla quale, alla fine, sempre torniamo.
Marco Ghironi