“SUR L’ADAMANT” DI NICHOLAS PHILIBERT

A Parigi, nel mezzo della Senna, l’Adamant, un singolare centro psichiatrico diurno costruito su una struttura galleggiante diventa teatro delle attività di arteterapia più disparate, animate da operatori sanitari aperti al dialogo e da pazienti consapevoli sia dei loro disturbi sia degli effetti benefici di questa esperienza. Sur l’Adamant di Nicholas Philibert, Orso d’oro della 73esima Berlinale, è il tentativo di mostrare una via che si oppone al deterioramento e alla disumanizzazione della psichiatria, emblematici di un mondo che pensa solo all’efficienza economica anche nel settore sanitario.

Proseguendo il lungo filone di opere che rivolgono la loro attenzione al problema della salute mentale, il film di Philibert si ritrova, anche inconsciamente, in ‘competizione’ con chi lo ha preceduto. Uno fra tutti, pioniere non solo dell’interesse riservato a queste tematiche ma anche dello stile che prenderà il nome di cinéma vérité, Frederick Wiseman. Il confronto con il suo esordio Titicut Follies (1967), oltre a mostrare alcune ovvie difformità nel trattamento delle persone affette da patologie mentali nelle rispettive strutture – imputabili in gran parte alle distanza cronologica tra i due film – rivela un’intuizione del regista americano che, seppur con esiti totalmente differenti, in Sur l’Adamant diviene elemento fondativo: indagare il rapporto tra i pazienti e la cinepresa, rompendo la quotidianità per esaltarne alcuni aspetti. Se in Titicut Follies la presenza della macchina da presa, per quanto possibile celata, sembrava fornire un pretesto ai ricoverati per trasformarsi in “star”, con esiti tendenti all’autoridicolizazzione – rappresentandosi come dei freaks –, nel film francese questo elemento costituisce una vera e propria evoluzione del percorso di arteterapia intrapreso. Philibert non vuole quindi farsi “fly on the wall” – anzi dichiara subito la sua presenza –, bensì sostituirsi ai terapisti usando la macchina da presa come specchio per restituire loro un volto e un corpo – come lamenta nell’ultima scena una paziente che vorrebbe condurre il corso di danza dopo averlo seguito per quattro anni.

Concentrandosi su tutto ciò che li fa stare bene, sulle loro gioie, su quello che hanno e non su ciò che è perduto, e portando in proscenio quegli «attori che non si rendono conto di essere attori» – come dirà uno dei residenti – Philibert riesce nel suo intento di restituire la dignità, perduta e mai riavuta, alle persone con disturbi mentali, troppo spesso ritratte con uno sguardo intriso di pietismo e falsa compassione. Consapevole del rischio di apparire eccessivamente ingenuo, lo sguardo del documentarista francese ha il grande pregio di proporre al pubblico una nuova e rinnovata rappresentazione del problema, sicuramente parziale ma indubbiamente sincera.

Enrico Nicolosi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *