“DOR (LONGING)” DI JANNES CALLENS

Afflitto da una ricerca senza meta, il protagonista di DOR (Longing), il belga-rumeno Stefan Gota, ritorna nella sua terra d’origine – nei paesaggi bucolici della Romania – per tentare così di trovare la risposta giusta tra le “infinite che ci sono”. Il regista Jannes Callens, tuttavia, si trattiene dal dichiarare quale sia il senso scovato dal giovane, estendendo alle immagini l’atmosfera di sospensione e di desiderio – da cui il nome del mediometraggio – che concretizza gli affetti del protagonista.

Il documentario, in concorso nella sezione lungometraggi del Job Film Days, si avvale di un ritmo ben costruito per legare visivamente il pubblico al susseguirsi di scene campestri – tra i pascoli e i dialoghi con i giovani pastori – assegnando così al tempo del film la creazione del significato dell’opera. Non tanto quindi nel profilmico, quanto nella durata delle inquadrature e nella scansione del montaggio che si rinnova la voce poetica del regista – quel senso di nostalgica attesa che dà movimento alle intenzioni e alle aspirazioni di Stefan. 

Su questa ricerca di appartenenza e di stabilità si dispiega il viaggio esistenziale del protagonista, chiodo fisso anche nei dialoghi con i giovani compagni con cui lavora al pascolo di pecore. Stefan si adatta ai tempi della vita in campagna regolata dalla natura e non dall’orologio; un tempo allungato che palpita nello scavo interiore, nel ritorno alle origini e che pulsa nei contrassegni visivi dati dall’effetto analogico di alcune sporadiche scene. Questo effetto-pellicola è significante dello stato ferino che Stefan associa agli ambienti campestri; e, infatti, in una di queste scene abbaia alla macchina da presa come se stesse regredendo a uno stato di natura, che nella precedente vita da writer urbano aveva smarrito.  

La rappresentazione della campagna come luogo di un passato nostalgico e incontaminato si lega in modo efficace all’atmosfera di sospensione e di ricerca di un’esistenza che abbia un significato. Lo spettatore è così inaspettatamente inglobato nella spirale atemporale del lavoro in campagna, nell’attesa come fine e affetto dell’immagine, nel desiderio del protagonista di una risposta giusta tre le “infinite che ci sono”.

Federico Lionetti

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