Il giovane protagonista (Marc Zinga) e la fidanzata incinta (Lucy Debay) volano dal Belgio in Congo per ristabilire i rapporti con la famiglia di lui, trovandosi però ad affrontare i pregiudizi causati da una voglia che il ragazzo ha sul volto – un cattivo presagio, secondo la tradizione locale, che ne ha negativamente influenzato la vita fin da quando era bambino. Da questo incipit si muove la storia di Augure, film d’apertura della sezione “Crazies” della 41° edizione del Torino Film Festival, e primo lungometraggio dell’eclettico artista Baloji, grafico e musicista belga di origini congolesi. Sulla scena di un dramma familiare, il regista imbastisce la spettacolarità dei corpi umani di un piccolo gruppo locale, rappresentando in questo modo i colori e i costumi di una cultura a metà tra l’effettiva tradizione africana e l’inventiva fantasmagorica del regista. Un allestimento visivo che valica i confini del mondano, portandoci verso la magia della fiaba e l’inquietudine dell’inconscio.
L’immagine di Baloji svela, incide e dà risalto ai corpi degli attori, reti simboliche su cui la famiglia e la società locale tessono le proprie superstizioni, i propri riti e le proprie paure. Si mettono in scena i corpi maledetti da marchi del diavolo o da infezioni invisibili, come il presagio sul volto del protagonista o la malattia venerea della sorella (Eliane Umuhire). E anche i corpi imbellettati di alcuni adolescenti che combattono in gruppi avversari per il piacere del gioco del potere – corpi impalcati con costumi carnevaleschi che vestono i fisici di nuovi mondi immaginari. E ancora, si mette in scena il corpo della madre (Yves-Marina Gnahoua) che soffoca invano il lutto di una doppia assenza, quella di un marito scomparso e quella di un figlio ostracizzato dalla famiglia; un vagare, il suo, che la porta infine in una distesa deserta in fiamme, calco citazionistico di quella, simile nello spirito ma fisicamente diversa, terra di fuoco su cui si rifletteva lo sgomento esistenziale della Bergman in Stromboli (Terra di Dio) di Rossellini. Davanti a questi corpi e volti si impongono le tante maschere – da quelle rituali, carnevalesche, alle maschere facciali per la pulizia del viso – che i personaggi della storia indossano come difesa e esibizione di sé: oggetti che servono tanto come nascondiglio dallo sguardo scrutatore della società, quanto come spettacolo effimero di se stessi.
Che siano dipinti o mascherati, screziati o contaminati, i corpi messi in mostra da Baloji sono stratificazioni di significati sociali, culturalmente ordinati e artisticamente plasmati dalla visione poetica del regista. Un inno all’immaginazione artistica che si scontra e si alimenta con la rigidità delle tradizioni.