Lui, Stefan (Stefan Gota), è un muratore insonne di origini rumene, dal viso arruffato e con i pantaloncini sempre corti; lei, ShuXiu (Liyo Gong), una vivace biologa di origini cinesi, dal dolce sguardo e spesso assorta. Entrambi vagano nella Bruxelles notturna e nei dintorni campestri, tra campi lunghi di palazzi in costruzione e dettagli di muschi e alberi mossi dal vento; si incamminano, si perdono e si ritrovano nel mondo di adesso – un bioma in cui la relazione di dipendenza uomo-natura progredisce in una stabile intesa.
Nel suo ultimo lungometraggio, Here, presentato nella sezione “Nuovimondi” della 41° edizione del Torino Film Festival, il regista belga Bas Devos ci racconta la storia di due novelli Adamo ed Eva, una coppia di inaspettati progenitori dell’umanità, a cui l’immagine filmica affida un compito molto più grande di quello a cui le loro dimesse esistenze sembrano aspirare. Un compito prefigurato dagli stessi lavori che questi svolgono: la catalogazione di muschi di cui ShuXiu si occupa al fine di studiare le capacità di adattamento degli organismi vegetali; e la costruzione di edifici di cui è parte Stepan come operaio edile. Lavori che partecipano del movimento di creazione di civiltà e di cultura – quell’insieme di dispositivi e simboli di cui l’uomo si serve per affrontare l’alterità del mondo. Di questo sistema di segni e significati, di oggetti e funzioni, il regista fa, nel susseguirsi lento e immersivo delle immagini, un inventario: scene di lavoro, di affetti familiari e di spostamenti su mezzi pubblici; ma anche inquadrature di taglieri, pentole, tupperware, tazze in microonde e pentole sul fuoco – utensili che sono parte necessaria della nostra sopravvivenza quotidiana. E, così, simile ai muschi studiati da ShuXiu, gli uomini si adattano, si modificano in conformità all’ambiente, che a sua volta altera e plasma pacificamente la condizione umana. Una visione ottimista del regista sul rapporto uomo e natura, che trae ispirazione dalla tesi della scrittrice di fantascienza Ursula K. Le Guin, che sosteneva che i primi esseri umani fossero principalmente raccoglitori di bacche e semi e che quindi avessero un rapporto di essenziale simbiosi con la natura.
Il film attualizza questa fantasia, partendo dal tutto che la successione di piani costruisce, per arrivare a quell’attimo presente, che fugge ogni denominazione e dualismo conflittuale. Un adesso e qui, a cui rimanda il titolo del film. E nella conclusiva gita fuori porta dei due protagonisti, le inquadrature fisse, tra dettagli di fiori e totali di boschi, realizzano quell’intervallo di tempo, quel presente in cui il film ricrea un nuovo ordine simbolico, tra il paradiso terrestre ancora recuperabile, e la modernità troppo umana per essere abbandonata.
Federico Lionetti